venerdì 30 luglio 2021

Tutta una vita di Strati: quando un architetto progetta un carcere pieno di luce

 


A trent’anni dalla sua stesura, arriva finalmente in libreria Tutta una vita di Saverio Strati: rifiutato, allora, dall’editore abituale di Strati, Mondadori e adesso edito da Rubbettino nella meritoria ripubblicazione delle opere di uno dei grandi autori del Novecento italiano.

Calabrese, di nascita e per affetti, Strati è autore di più ampio rilievo, certificato non solo dai riconoscimenti ottenuti (ebbe il Campiello per Il selvaggio di Santa Venere nel 1977), ma, ancora di più, dal fatto che le sue opere, da Tibi e Tascia a Noi lazzaroni, non solo resistono al passare del tempo, ma, col tempo, acquisiscono, per stile, incisività di visione e lucidità di confronto con la realtà, una verità che fa sentire il fortunato lettore «arricchito di mondo, di esperienza, di sapienza.»

Anche leggendo Tutta una vita – titolo che non può non richiamare Quasi una vita di Corrado Alvaro – non si avverte lo stacco temporale tra l’anno di conclusione della scrittura e quello di pubblicazione. Il racconto risulta fresco, aeroso, attuale: non nel senso di molti testi vacui della contemporaneità, ma perché gradevolmente immerge il lettore di oggi in un flusso di pensiero complesso e coinvolgente.

A differenza di altri libri di Strati, il protagonista non è economicamente povero né socialmente marginale: «Sa, le origini della mia famiglia sono operaie. Mio nonno era muratore, ora mio padre e mio zio sono padroni di un’impresa edile; si vive di lavoro.» Lavoro faticoso e impegnativo, che permette, però, di mandare i figli a studiare all’università a Milano, per poi tornare a gestire l’azienda familiare in Calabria, in una cittadina sul mare Jonio.

Mentre il cugino, Lino, corrisponde in tutto – scelta della facoltà e della moglie, inserimento lavorativo – alle attese familiari, il protagonista, Pino, cerca nello studio, nel lavoro, nel vagabondare delle relazioni affettive con varie donne, una corrispondenza a se stesso, alle esigenze di bellezza che ha nel cuore: una bellezza che è prima di tutto dell’arte, della matematica, del pensiero filosofico e che egli sente di poter tradurre facendo della passione per l’architettura la sua professione.*

Degli anni Settanta – rievocati una ventina d’anni dopo dal protagonista in una sorta di monologo interiore con l’alternanza del discorso indiretto e del discorso diretto libero – emergono, soprattutto, alcune modificazioni socio-economiche che attraversano sia il Nord che il Sud del paese – che l’autore guarda senza sconti per nessuno – e l’emergere di una soggettività femminile, in particolare nelle relazioni sessuali, cosa che porta Pino a fare i conti con la «mia mentalità di arretrato»

Nonostante i forti legami familiari e la nostalgia di certi luoghi, il mare soprattutto, Pino sceglie Milano e Firenze: emigrato non più temporaneo, ma definitivo, non per bisogno economico, ma per “un’esigenza spirituale”. Perché lì dove può godere della musica, dei monumenti, della pittura, nonché della possibilità di discutere con altri di tutte le domande filosofiche-esistenziali che gli affollano la mente insieme a quelle sull’arte (la musica, la pittura, l’architettura in primis) sulla politica, sul ruolo degli intellettuali nei partiti di sinistra, sul lavoro, in fabbrica e altrove. La sua è una mente che continuamente cerca e che nulla, se non un confronto diuturno con se stessa e con nuove domande riesce ad appagare.

Tutta una vita – che Rubbettino pubblica con la pregevole prefazione di Vito Teti e interessante postfazione di Pasquale Tuscano – non è solo un capitolo che arricchisce la bibliografia di Saverio Strati. È la conferma che l’autore – cui, a un certo punto, l’editoria non ha dato più spazio – è uno dei grandi del Novecento italiano, interprete originale e sensibile dei cambiamenti intervenuti nel Sud, ma non solo, del paese e che le sue opere meritano di essere considerate parte importante del patrimonio culturale del paese: capaci di farne “crescere l’anima”, di farla, l’anima, “diventare adulta”.


Pubblicato su Zoomsud: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108138-la-recensione-tutta-una-vita-saverio-strati-rubbettino

 

*Da architetto disegna anche un carcere che “ha il respiro di uno stadio, aperto e spazioso” perché «il carcere è un luogo di riscatto e quindi di elevazione»: «Quando prima di inviare il progetto lo sottoposi al giudizio del professore Capaci, questi al primo istante ne fu turbato. Come mai così aperto al cielo, così ad anfiteatro, osservò? Glielo spiegai: perché secondo me il carcere doveva essere luogo di riscatto e non già di perdizione. In cima, come l’ultima gradinata di uno stadio, ci dovevano vivere i condannati alla massima pena; e dovevano avere luce e sole e dovevano essere liberi di camminare lungo l’ampia gradinata su cui si aprivano le loro celle. La luce, il sole e quel senso di libertà di cui godevano li avrebbero aiutati a redimersi. Al primo piano, o gradinata bassa, dovevano starci i carcerati che avevano la minima pensa da scontare; e così via; insomma a rovescio dell’inferno dantesco.»

Nessun commento:

Posta un commento