«Si era proprio nel fitto dello sporo
(semina del grano, NDR) e i contadini si alzavano molto presto, la mattina, per
andare sui campi a lavorare.» È il dicembre
del 1935; a Roma comanda il duce e in Abissinia imperversa il generale Graziani.
Ma tutto ciò è molto lontano da un piccolo paese calabrese, dove continua la
secolare fatica di chi ha un pezzetto di terra da seminare e quella di chi deve
raccogliere olive nei campi del latifondista locale. Alzarsi all’alba, lavorare
fino a tardi, per cibo un po’ di pane, spesso senza ombra di companatico, ricoprirsi
di vestiti vecchi e camminare scalzi. L’abitudine al sacrificio come
inevitabile compagno dei propri giorni, la povertà accettata come la normalità
dell’esistenza.
Nell’interstizio tra l’infanzia e
l’adolescenza, i bambini che non vanno a scuola restano soli tutto il giorno e
s’incontrano a giocare nella piazzola. Tascia, ovvero Teresa Ventura, è vivace
e linguacciuta, in perenne polemica con la madre e il fratello maggiore e
sempre protetta dal padre, che ha un debole per lei. Le pesa accudire il più
piccolo dei suoi fratelli, Ciccio, di due anni, e dover fare piccoli servizi, come
prendere l’acqua alla fontana e accendere il fuoco per cuocere i legumi per la
sera, ma i suoi doveri non le impediscono di passare buona parte del suo tempo
a giocare a nocciole. Quando accumula castelli
(«un castello è composto di quattro nocciole»; e lei arriva anche a cento)
si sente «la più ricca di tutte le ragazze del mondo». Tibi, ovvero Tiberio
Fideli, orfano di padre, è andato a scuola «sino alla terza, sino a due anni
fa. Poi mia madre non mi ha più mandato a scuola, perché non aveva i soldi per
i libri e per la tessera. I libri costano molto, lo sai tu? E per la tessera il
maestro pretendeva cinque lire e mia madre mai aveva da darmele.» L’incontro
tra Tascia e Tibi apre la solitudine dei due ragazzini ad una condivisione non
solo di giochi e di piccoli lavori ma di pensieri ed emozioni: «Andavano alla
fontana assieme e parlavano di tante cose: di Dio, del cielo, delle stelle,
degli uccelli e del mare, dei loro amici, parlavano.».
La loro voglia di giocare e ancora giocare
è attraversata dalla consapevolezza, venata di malinconia, che, questo, sarà il
loro ultimo Natale spensierato: si appresta per entrambi il tempo del lavoro:
che è sì, diventare grandi, ma, anche e forse soprattutto, essere sotto il
giogo di una fatica senza respiro.
Nel dialogo intenso – quello fra di loro e
quello che ognuno fa con se stesso – scorrono paure e stupori, incanti e
gelosie, avvicinamenti e distacchi, ingenuità e piccole furbizie: mille domande
senza risposta e il sogno di un’amicizia che possa andare al di là del tempo e
anche delle convenzioni che accettano un legame bambino-bambina, ma non più
quello tra ragazzo e ragazza. Nuove inquietudini e inattese incomprensioni si
aggiungono quando le vacanze di Natale portano a giocare in piazza anche i
pochi ragazzi che a scuola ci vanno. Le attese degli uni e degli altri non sono
diverse. Quando giocheranno a mariti e mogli, metteranno in scena la vita dei
genitori, come se non ci fosse alcuna variazione possibile. Turi, Cata,
Antonetta discutono del tema da portare a scuola, diverso per ragazze e
ragazzi: «Per noi ragazzi è così: “Quale generale amate di più: Graziani o Badoglio?
E cosa vorreste fare, se la patria vi chiamasse a servirla? (…) Io dirò che io
amo Graziani, perché mi piace più che Badoglio. (…) E dirò anche (…) che se la
patria mi chiamasse, io vorrei andare in Abissinia a combattere con Graziani,
per ammazzare tutti i negri che ci sono e per prendere il Negus e legarlo come
una capra e portarlo a Roma davanti ai piedi del duce.” “Uh! Stai ripetendo
tutto il discorso del maestro”, osservò Antonietta, rivolta a Turi. “E che
m’importa?”, fece Turi. “Lui ci ha detto di scrivere il tema a questo modo ed
io a questo modo glielo scrivo.»
Un mondo immobile, dove per uscire dallo
stato di totale inferiorità, si può solo entrare a servizio nella ricca
famiglia di don Carmine, proprietaria di buona parte delle terre. Tibi avrà la
fortuna di entrarci per volontà del quasi coetaneo don Michelino, che lo vuole
più compagno che servitore: può quindi, sperare di poter finalmente realizzare,
a prezzo della separazione dalla madre e anche da Tascia, il suo desiderio più
profondo: studiare: «Lui aveva bisogno di molte altre cose assai più importanti
del pane: di libri, di spiegazioni, di discorsi.»
Tibi
e Tascia di
Saverio Strati, pubblicato nel 1959 e riedito da Rubettino alla fine del 2019,
è un indimenticabile romanzo sull’infanzia che scopre la complessità della
vita, il lavoro, l’amore, la diversità uomo-donna, la frattura ricchi-poveri.
Un testo che, come giustamente scrive Goffredo Fofi nella prefazione, non ha
uguali nella nostra narrativa: un affresco neorealista e, nello stesso tempo,
un concentrato di finissima analisi psicologica. Una quotidianità che,
fortunatamente, non esiste più, per il racconto, universale, di una fase della
vita che resta quella del passaggio dal gioco
6thmuvg alla realtà dell’esistenza.
Pubblicato su @Zoomsud
Sullo stesso libro, la mia recensione su
Il Riformista Napoli, sabato 18 gennaio 2010
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