mercoledì 22 gennaio 2020

Tibi e Tascia di Saverio Strati





«Si era proprio nel fitto dello sporo (semina del grano, NDR) e i contadini si alzavano molto presto, la mattina, per andare sui campi a lavorare.» È il dicembre del 1935; a Roma comanda il duce e in Abissinia imperversa il generale Graziani. Ma tutto ciò è molto lontano da un piccolo paese calabrese, dove continua la secolare fatica di chi ha un pezzetto di terra da seminare e quella di chi deve raccogliere olive nei campi del latifondista locale. Alzarsi all’alba, lavorare fino a tardi, per cibo un po’ di pane, spesso senza ombra di companatico, ricoprirsi di vestiti vecchi e camminare scalzi. L’abitudine al sacrificio come inevitabile compagno dei propri giorni, la povertà accettata come la normalità dell’esistenza.
Nell’interstizio tra l’infanzia e l’adolescenza, i bambini che non vanno a scuola restano soli tutto il giorno e s’incontrano a giocare nella piazzola. Tascia, ovvero Teresa Ventura, è vivace e linguacciuta, in perenne polemica con la madre e il fratello maggiore e sempre protetta dal padre, che ha un debole per lei. Le pesa accudire il più piccolo dei suoi fratelli, Ciccio, di due anni, e dover fare piccoli servizi, come prendere l’acqua alla fontana e accendere il fuoco per cuocere i legumi per la sera, ma i suoi doveri non le impediscono di passare buona parte del suo tempo a giocare a nocciole. Quando accumula castelli («un castello è composto di quattro nocciole»; e lei arriva anche a cento) si sente «la più ricca di tutte le ragazze del mondo». Tibi, ovvero Tiberio Fideli, orfano di padre, è andato a scuola «sino alla terza, sino a due anni fa. Poi mia madre non mi ha più mandato a scuola, perché non aveva i soldi per i libri e per la tessera. I libri costano molto, lo sai tu? E per la tessera il maestro pretendeva cinque lire e mia madre mai aveva da darmele.» L’incontro tra Tascia e Tibi apre la solitudine dei due ragazzini ad una condivisione non solo di giochi e di piccoli lavori ma di pensieri ed emozioni: «Andavano alla fontana assieme e parlavano di tante cose: di Dio, del cielo, delle stelle, degli uccelli e del mare, dei loro amici, parlavano.».
La loro voglia di giocare e ancora giocare è attraversata dalla consapevolezza, venata di malinconia, che, questo, sarà il loro ultimo Natale spensierato: si appresta per entrambi il tempo del lavoro: che è sì, diventare grandi, ma, anche e forse soprattutto, essere sotto il giogo di una fatica senza respiro.
Nel dialogo intenso – quello fra di loro e quello che ognuno fa con se stesso – scorrono paure e stupori, incanti e gelosie, avvicinamenti e distacchi, ingenuità e piccole furbizie: mille domande senza risposta e il sogno di un’amicizia che possa andare al di là del tempo e anche delle convenzioni che accettano un legame bambino-bambina, ma non più quello tra ragazzo e ragazza. Nuove inquietudini e inattese incomprensioni si aggiungono quando le vacanze di Natale portano a giocare in piazza anche i pochi ragazzi che a scuola ci vanno. Le attese degli uni e degli altri non sono diverse. Quando giocheranno a mariti e mogli, metteranno in scena la vita dei genitori, come se non ci fosse alcuna variazione possibile. Turi, Cata, Antonetta discutono del tema da portare a scuola, diverso per ragazze e ragazzi: «Per noi ragazzi è così: “Quale generale amate di più: Graziani o Badoglio? E cosa vorreste fare, se la patria vi chiamasse a servirla? (…) Io dirò che io amo Graziani, perché mi piace più che Badoglio. (…) E dirò anche (…) che se la patria mi chiamasse, io vorrei andare in Abissinia a combattere con Graziani, per ammazzare tutti i negri che ci sono e per prendere il Negus e legarlo come una capra e portarlo a Roma davanti ai piedi del duce.” “Uh! Stai ripetendo tutto il discorso del maestro”, osservò Antonietta, rivolta a Turi. “E che m’importa?”, fece Turi. “Lui ci ha detto di scrivere il tema a questo modo ed io a questo modo glielo scrivo.»
Un mondo immobile, dove per uscire dallo stato di totale inferiorità, si può solo entrare a servizio nella ricca famiglia di don Carmine, proprietaria di buona parte delle terre. Tibi avrà la fortuna di entrarci per volontà del quasi coetaneo don Michelino, che lo vuole più compagno che servitore: può quindi, sperare di poter finalmente realizzare, a prezzo della separazione dalla madre e anche da Tascia, il suo desiderio più profondo: studiare: «Lui aveva bisogno di molte altre cose assai più importanti del pane: di libri, di spiegazioni, di discorsi.»
Tibi e Tascia di Saverio Strati, pubblicato nel 1959 e riedito da Rubettino alla fine del 2019, è un indimenticabile romanzo sull’infanzia che scopre la complessità della vita, il lavoro, l’amore, la diversità uomo-donna, la frattura ricchi-poveri. Un testo che, come giustamente scrive Goffredo Fofi nella prefazione, non ha uguali nella nostra narrativa: un affresco neorealista e, nello stesso tempo, un concentrato di finissima analisi psicologica. Una quotidianità che, fortunatamente, non esiste più, per il racconto, universale, di una fase della vita che resta quella del passaggio dal gioco 6thmuvg alla realtà dell’esistenza.

Pubblicato su @Zoomsud 




Sullo stesso libro, la mia recensione su

Il Riformista Napoli, sabato 18 gennaio 2010




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