martedì 19 agosto 2014

Puzza di bruciato intorno ai Bronzi







Premessa. Farei volentieri a meno di occuparmi dello spostamento sì o no dei Bronzi. Ma, nelle attuali discussioni sulla loro (eventuale) gita a Milano, c’è una scia di bruciato, acre e fastidiosa, su cui non è il caso di far finta di niente.

Dunque: A chi appartiene un’opera d’arte? A tutti coloro che la sanno apprezzare.

Ovvero, i Bronzi – come il Giudizio universale della Cappella Sistina, la Nike di Samotracia e l’urlo di Munck – sono patrimonio (potenzialmente) di tutta l’umanità. E il caso, il destino, la provvidenza o chi volete voi li hanno affidati ad un angolo di Calabria affinché se ne prendesse cura in maniera che tutti ne possano godere.

Si possono spostare i Bronzi? Chi può dirlo, se non degli specialisti in materia? A giudicare da quello che decine di esperti hanno sostenuto in questi anni, parrebbe decisamente di no: l’apparenza florida nasconde microfratture che lo sconsigliano caldamente.

Mettiamo che abbiano detto fesserie e che, invece, i Bronzi siano spostabili.

A chi gioverebbe il loro spostamento?

Ai visitatori dell’Expo? Forse.

Alla Calabria e all’Italia, sic stantibus rebus, direi di no.
Alla Calabria perché sembrerebbe certificare che la regione è troppo lontana (e non solo metaforicamente) da essere, oltre che irraggiungibile, anche irrecuperabile (alla civiltà, alla modernità)
All’Italia, che dovrebbe conservare e valorizzare, con cura e attenzione costante e intelligente, l’enorme ricchezza culturale e artistica che il passato le ha lasciato e che, evidentemente, non lo fa: visto che ha bisogno di trasferire da una parte all’altra del paese opere che, se ne creassero le condizioni, sarebbero raggiungibili (da Milano) in un’oretta e mezzo d’aereo (vedendo anche il resto, eccezionale, del Museo, ove mai fosse tutto aperto).





Alla prima (nuova) uscita del signor S., il signor X., (se-dicente) critico d’arte di valore interplanetario alzò le sopracciglia. Alla terza, sbuffò. Alla quinta, esplose: “Basta. Non se ne può più” e convocò i giornalisti amici. Rosso in volto e sudato per la rabbia, gridò: “E’ una vergogna. Perché solo i Bronzi devono andare all’Expo? E la Primavera di Botticelli, il Davide di Michelangelo, la Maddalena del Caravaggio devono restare a casa? E gli affreschi di Giotto?” Il (giovane e inesperto) cronista che osò osservare: “Vabbé per i quadri, ma gli affreschi?” ebbe la risposta che meritava: “Idiota, ignorante… che ci vuole a staccare quel che basta delle pareti della Basilica di Assisi e portarle a Milano?”.

Per non far torto a nessuno, dal ministero immantinente partì la convocazione per tante commissioni (una per opera) di (se-dicenti) esperti mondiali. Tutti, memori del verso dantesco (il ….bel paese là dove ’l sì suona) si affrettarono ad avallare.

Così – mentre alcuni esaltavano la nuova spinta propulsiva dell’ingegno italico e ad altri le vene e i polsi s’ammalavano di ulcere e infarti – mezzo paese cominciò ad essere occupato nell’impacchettamento della Venere del Tiziano, del Cristo Velato di Sanmartino, del Federico da Montefeltro di Piero della Francesca. Tir, aerei, treni pieni di quadri, statue, scatole con polvere di affreschi cominciarono a risalire la penisola, con (ovvio) accompagnamento di (eccezionali) misure di sicurezza. Il resto del paese (quello non occupato in tali trasporti) fu costretto all’immobilità, per assoluta impossibilità di percorrere una strada o di prendere un treno o un aereo.

Ma non era finita. Perché il signor Y., anch’egli (se-dicente) critico d’arte di valore stellare convocò una conferenza stampa e urlò che in l’Italia  bisognava smetterla con le disparità: i monumenti non potevano essere considerati inferiori alle statue e ai quadri. Ergo: Pompei e il Colosseo, come anche le chiese di Noto e i sassi di Matera, dovevano essere smontati e trasferiti, per immediata ricostruzione, a Milano.

Qualche funzionario osò rilevare che era davvero troppo. Ma il ministro fu irremovibile. E, subito, venne insediata l’apposita commissione…

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