Che la poesia l’avesse già nel nome, cominciò a ripeterlo, stringendo
le labbra a cuore, intorno ai quarantatré anni – prima, a chi glielo
chiedeva, si limitava a dire che portava il nome d’una nonna – quando si
ritrovò poetessa.
Al
trigesimo per la morte del marito, Elide Leonzi aveva letto alcune righe
scritte la sera precedente. Qualcuno apprezzò. Gli altri sospirarono e
abbassarono lo sguardo per evitare di scoppiare nel riso che una simile
accozzaglia di parole avrebbe potuto provocare. Ma, per consolare un
dolore che i più intimi sapevano bene quanto scarso, finsero di
asciugarsi gli occhi per la commozione e, nell’abbraccio di saluto, la
chiamarono poetessa.
Un
matrimonio formale e senza figli l’aveva lasciata, e in un vasto
appartamento, con una più che discreta posizione economica. E, già da
tempo, aveva delegato le incombenze del governo della casa ad una
sorella poco più giovane, maldivorziata e con un figlio da mantenere.
Poiché
non sapeva fare molto altro, cominciò a scrivere versi. Vinse il
concorso della festa parrocchiale in onore di san Leo e poi quello della
vicina parrocchia di San Giovanni e pure quello della parrocchia dei
santissimi Cosma e Damiano.
Le ci volle meno di un anno per diventare, nel suo quartiere, un’autorità culturale riconosciuta. Il
delegato del sindaco si premurò di farla intervenire all’inaugurazione
di una piccola stele ai caduti – e lei ricambiò con versi che vanamente
supponeva eroici. La invitarono per la prima della locale rassegna
teatrale e lei declamò una sorta di inno che l’altoparlante, per una
volta misericordioso, limitò solo alle prime file.
Dei
dubbi, sulle sue qualità poetiche, li aveva più di uno, e pure grandi.
Ma li teneva per sé o, al massimo, ne ridacchiava con qualche intimo
fidato. Per ignoranza, per pigrizia o per stanchezza, nessuno aveva
voglia di sfidare l’ormai consolidato senso comune che Elide Leonzi
fosse una poetessa. Anzi, da quando era apparso sul giornale
della provincia un articoletto con una sua foto in un ristorante sul
mare, in abito lungo, scollatura vistosa e alto spacco laterale, la loro grande poetessa.
La
chiamarono anche dalla locale scuola media. Una professoressa giovane e
precaria, che faceva quasi cento chilometri al giorno su una
caracollante littorina dello jonio reggino, voleva verificarne la
disponibilità a fare da tutor ad un corso di poesia.
“Ah –
mormorò Elide, che pesava poco meno di un quintale ma riusciva a parlare
con una voce così flebile che le si sarebbero attribuiti non più di
trenta chili – leggerò ai bambini le mie poesie più belle…”. La
professoressa Adele Gatto, che in treno leggeva sempre e qualche volta
appuntava pensieri ostinati di scuro con squarci d’azzurro, la
interruppe: “Si, certo, ma noi pensiamo di fare un piccolo corso sulla
poesia, partendo da Ibico per arrivare Kavafis… vorremmo un suo aiuto a
scegliere, sa non possiamo tartassare i bambini, non più d’una decina di
poesie… E poi vorremmo che i bambini ne scrivessero delle loro:
spontanee, naturalmente, ma qualche nozione su rime, ritmo, assonanze
bisognerà pur dargliela… sarebbe bello parlare almeno di endecasillabi e
settenari, magari del sonetto…”. “Certo, certo – rispose Elide –
purtroppo in questo momento non mi posso trattenere… aspetto un
giornalista per un’intervista…”.
L’incontro con Giacomo Buffo, galante direttore del giornale, autonomo ma
finanziato dall’ente provinciale di cui era assessore, era previsto per
l’indomani. Ma prendere fiato le era urgente. Aprì il frigorifero e ne
trasse una spasa di paste alla crema, alla panna e al cioccolato. Alla
terza, provò a pensare. Ibico? Kavafis? Chi erano costoro? E poi le
rime, il ritmo, le assonanze? Gli endecasillabi e i settenari? Lei si
metteva – qualche volta pensando, qualche altra anche no – e scriveva,
scriveva. E ogni due, tre parole andava a capo: non bastava?
Pubblicato su Zoomsud:
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