sabato 4 gennaio 2014

Cartoline reggine (buone anche per l'anno nuovo)





Ho raccolto delle more. Fuori tempo, mature e succose.
Ho visto, dall’Etna, stendersi nel cielo, in orizzontale per tutta la lunghezza della costa siciliana, un magico nastro rosso.
Ho attraversato strade con la spazzatura che impedisce non solo il passaggio ai pedoni ma rende difficile la guida (forse per questo, da queste parti, ci stanno tanti fuoristrada).
Ho sentito la gente lamentarsi della Tares fuori misura, soprattutto considerata l’inefficienza dei servizi.
Ho rivisto i Bronzi finalmente a casa.
Non sono andata al Cilea riaperto (ma si può anche pensare ad usare con tanta enfasi tal verbo?) giusto per una sera.
Ho raccolto splendide conchiglie su belle spiagge intristite da ristagni maleodoranti.
Ho incontrato persone belle che, in altri luoghi, avrebbero, forse, ruoli sociali più aderenti alle loro competenze.

I dati confermano che la qualità della vita, in Calabria, è la peggiore di tutte in Italia. Magari, in relazione agli indicatori prescelti, si cambia provincia, una volta si dice Reggio, un’altra Crotone, ma sulla regione sono tutti d’accordo.

Poiché, per tali dati, non vale la frase evangelica “gli ultimi saranno i primi”, questa, per chi la Calabria la ama, è una buona sfida per il 2014.






Più di uno mi ha chiesto: “E, allora che ne dici dei Bronzi al Museo?”.
Certe emozioni possono essere meglio espresse in un triangolo ideale fatto di silenzio, luce dello sguardo e un rigo appena, che sia un tweet o un verso. Ma proverò ugualmente a mettere qualche rigo dietro l’altro.
Il mio sentimento è molto vicino a due esperienze molto comuni.

La prima è quella del ritorno a casa, finalmente, del familiare amato che ha passato un lungo periodo in ospedale e che, ad un certo punto, già disperavi potesse mai rivarcare la soglia della sua stanza. Una sorta di letizia che ti formicola per ogni dove e vorresti ringraziare tutti, dal primario alla caposala, e ti viene da sorridere anche al vicino antipatico e a rispondere cortesemente all’ennesima telefonata di chi ti vuol vendere chissà chi. Insomma: gioia pura. Ma gioia che sa di convalescenza. Perché, finché tutte le sale non saranno di nuovo piene, finché il museo non tornerà tutto vivo, ti sembrerà di stare sempre sul chi va là.

La seconda è quella dei corredi inutilizzati. Quante case calabresi hanno armadi e cassettoni zeppi di (ingiallite) lenzuola e tovaglie dai meravigliosi ricami che furono approntati per il matrimonio della nonna della nonna e poi sono passati di figlia in figlia e mai messi in uso perché “sono troppo belli… e se poi si sciupano… e chi li stira…”. Insomma: abbiamo avuto un regalo. Prezioso. Non lo possiamo fare ammuffire.

Che cosa dovessero rappresentare, dovunque dovessero andare (e ben vengano studi e approfondimenti), il fatto è che sono arrivati a noi. “Egli verrà dal mare e sarà bello come un dio”, diceva Euripide nella Medea. “Essi sono venuti dal mare e sono belli come dei”, potrebbe scrivere oggi dei Bronzi nella loro nuova sala, sui loro basamenti così semplici così tecnologici.

Ma è un regalo che, insieme a tutto il passato contenuto nel Museo, insieme a tutte le ricchezze archeologiche del nostro territorio, dobbiamo – finalmente – saper fruttare. Per l’oggi e per il domani. Altrimenti, i Guerrieri – che sembrano lì pronti a difendere Reggio contro ogni nemico – scenderanno dai loro piedistalli e rivolgeranno tutta la loro forza contro di noi.



Trentanni fa e passa, sui treni che scendevano in Calabria, in quei primi giorni d’inverno carichi d’attesa natalizia, c’erano un bel po’ di anziani signori con i pantaloni quadrettati e, magari, un anello con pietra al dito, con mogli dalle caviglie ingrossate e, al collo, una catenina piuttosto massiccia. Emigrati in America, in Canada, arrivati a Roma in aereo e che proseguivano verso sud riempiendo il treno di valigie che, si immaginava, carichi di meraviglia per i parenti. 


Ventanni fa e passa, c’erano famigliole, torinesi di domicilio ma di ancora indimenticati accenti aspromontani, con figli piccoli che continuavano a chiedere: “La prossima è la stazione nostra?” e i genitori a zittirli riempiendogli la bocca di cibarie.

Da qualche anno, appena il treno lascia la Campania ed entra in Lucania, l’aria di Calabria si diffonde, immediata, attraverso i cellulari.

Ed è, soprattutto, una frase che si ripete: “Papà, siamo a venti minuti dalla stazione… Papà siamo un po’ in ritardo, non uscire ancora… Sì, papà ci vediamo tra poco…”. E’ la festa – voluta? dovuta? – del momentaneo ritorno a casa delle centinaia di studentesse che frequentano una qualche università del Centro-Nord e delle decine di donne che, sono riuscite, in qualche modo, a trovare lavoro. Qualcuna con a lato un marito, un fidanzato, un compagno, molte sole.
Te le immagini libere più di ogni loro ava, passata e recente, determinate  a non arrendersi rispetto ai loro sogni, forti oltre ogni fragilità. E sembra di cogliere che, in fondo, quel padre e quella madre che, al momento scompare perché nella circostanza sarà il padre a guidare la macchina dalla stazione a casa, ne sorreggano lo sforzo.

Sarà perché quella telefonata: “Papà, siamo arrivati a Paola… siamo in orario… quindi…” non mi appartiene (prima per mancanza del cellulare poi perché il tempo si porta via le persone), ma quelle due sillabe, pronunciate, qui, sul treno del ritorno, in decine di vibrazioni, sono la cantata più intima del mio Natale.

Tanti auguri, Calabria. A chi c’è sempre. A chi non può o non vuole esserci. E a chi, ogni volta, ritorna. 




Di tutti i presepi che ho visto quest'anno, questo - della parrocchia di Pellaro - è quello che mi ha emozionato di più: un pezzo di barca stravecchio con dentro la natività e, intorno, i segni dell'approdo sulle nostre spiagge dei profughi. Bibbia e storia a ricordare che siamo tutti "stranieri" in cerca di patria.

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