Senza mai
dirselo esplicitamente – di poche parole con tutti, tendeva ad un
sobrio silenzio anche con se stessa – per lungo tempo Anna aveva pensato
che, arrivata alla pensione, avrebbe lasciato Roma per ritirarsi in una
casetta tra la campagna e il mare della Calabria estrema. Soprattutto
dopo la morte del marito e visto che i due figli, poco più
che trentenni, lavoravano all’estero. Ma la morte dei suoi genitori e i
sempre più scarni rapporti col resto della parentela calabrese le
avevano congelato il proposito. Solo la sera tardi, quando i pensieri si
facevano più opprimenti, talvolta cercava di fermare la mente anche
vagheggiando di trasferirsi in un luogo in cui, anche se sola, avrebbe
avuto la compagnia del cielo e del mare della sua infanzia. E, allora,
le capitava anche di sfogliare le pagine dei giornali on line calabresi,
alla ricerca di segnali che rafforzassero quel desiderio di ritorno che
le si scioglieva già al primo albeggiare.
Quella
sera vide la notizia sul primo dei giornali che aprì, ma non badò al
nome, né collegò il nome alla persona. La ritrovò, la notizia, quasi
uguale anche nel titolo, su un secondo e si limitò ad una smorfia, per
quel cognome, il suo, che non era insolito ritrovare in fatti di cronaca
sgradevoli. Ma sul terzo, la notizia era accompagnata da una foto che
la lasciò immobile davanti al computer per buona parte della notte.
I
capelli, le tempie, la forma degli occhi, il naso, le labbra, le
orecchie, i lineamenti tutti del volto, non erano troppo lontani da
quelli d’una prozia morta una quarantina d’anni prima.
Non era
strano, la sua prozia e il signore della foto erano parenti, ma la
stordì, come un pugno al mento, trovare lo sguardo della prima sulla
faccia del secondo.
Continuava
a guardare quelle fattezze e le sovvenivano mezze parole, silenzi e
bisbigli su certi rami della famiglia, ascoltati quand’era piccola e
dimenticati in un angolo oscuro della mente.
Lo sapeva. Eppure mai, come ora, aveva realizzato di avere anche parenti in odore di ‘ndrangheta.
Quando
riuscì a controllare il senso di fastidio – quasi una macchia sul
maglioncino di cachemire rosa antico o una cacca di cane sulla punta
della decolté blu – che la scoperta le aveva fatto ricadere addosso,
provò a tracciare il suo albero genealogico. Sia per parte di madre che
di padre non riuscì ad andare oltre un bisnonno, ma, anche così, il
numero di prozii che si ritrovava era alto e molto di più doveva esserlo
quello dei cugini di terzo grado e oltre. Sparsi chissà in quale parte
del mondo. Con quanti da inserire, come sulle lavagne dell’infanzia,
nella lista dei “buoni” e quanti su quella dei “cattivi”.
Ci mise
più di una settimana a districarsi dalle confuse emozioni che tutte
quelle appartenenze, quelle somiglianze che camminavano su altre strade,
in altre città, quei fantasmi con qualche goccia del suo sangue,
avevano fatto diventare fili di spago che le giravano intorno, stretti a
serrarle il respiro, ad appesantirle i pensieri.
Poi anche
quel tumulto fu riassorbito con il paziente esercizio di quella
disciplina dei sentimenti ch’era, da decenni, il suo allenamento
quotidiano. Dimenticò, richiudendo la ferita con un ricamo a cordonetto.
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