domenica 7 aprile 2013

Omaggio a Roberto Dinacci










Qui di seguito La primavera dell'anima, che fa parte del volume Racconti per Nisida (Guida editori, fuori commercio) e l'Omaggio a Roberto del 7 aprile 2013






La primavera dell’anima





Di tutta la memoria solo vale

il dono eccelso di evocare i sogni.

Antonio Machado





Nel 3013 era ormai stata quasi del tutto completata la ricostruzione. Tredici anni prima, uno sconvolgente fenomeno aveva modificato la struttura geofisica di tutto il golfo di Napoli, di molti paesi vesuviani e dell’area flegrea. Un violento terremoto, con un contemporaneo maremoto, e un’ esplosione del Vesuvio paragonabile solo a quella del 79 d. C., aveva provocato un numero contenuto di morti, solo grazie alle scoperte scientifiche che avevano permesso di prevedere gli eventi e, quindi, di prevenirne il più possibile le conseguenze. Si sapeva che i particolari gas sprigionati dal triplice fenomeno avrebbero bloccato il funzionamento dei computer e diminuito le capacità di memoria delle persone. Per tempo, erano state progettate nuove tecnologie ed erano stati selezionati gruppi di giovani sui quali sperimentare metodi e farmaci per ritessere i fili del ricordo.



Ormai quasi non si parlava più di quanto accaduto e l’opinione pubblica sembrava emozionarsi solo quando emergeva qualche traccia di Nisida, che era stata sommersa dalle acque e che, nell’immaginario collettivo, era diventata l’isola  dei ragazzi dispersi che non c’è.



Quando nel gennaio del 3013, in una cittadina a nord di Napoli venne ritrovata una piccola Nisida in ceramica, la notizia rimase circoscritta agli addetti ai lavori, che entrarono però in fibrillazione. Ad aprile, la scoperta di una seconda isoletta nella stessa cittadina venne riportata da tutti i mezzi di comunicazione ed entrò nelle conversazioni di tutti. Ma il ritrovamento, all’inizio di giugno, di una terza Nisida di ceramica venne accolta con manifestazioni di emozione collettiva cui non si era più abituati. Mentre Nisida diventava un mito e la sua icona veniva riprodotta dovunque milioni di volte, le autorità erano riuscite a non far filtrare le circostanze e le particolarità dell’ultimo ritrovamento.



Le due precedenti piccole isole di ceramica erano state scoperte nel centro abitato, la terza era stata ritrovata in quello che restava del cimitero, ancora miracolosamente incollata su una lastra di marmo che, pur staccatasi dalla tomba, manteneva qualche brandello di foto completamente slavata dal tempo e alcune lettere di un nome. Venne segretamente nominata una commissione di esperti che dovevano ricostruire chi era stato il morto sulla cui tomba era attaccato il simbolo di Nisida. Fu chiamato a presiederla un professore di fama mondiale, grande conoscitore della storia, autore di studi fondamentali sull’area flegrea e gli vennero dati pieni poteri, persone e mezzi in quantità. Gli unici vincoli che gli vennero imposti furono di fare presto e di non far filtrare notizie finché non si avessero dati certi: soprattutto, di far presto perché si temeva che la crescente emozione popolare e il continuo rimbalzare di notizie inventate potessero alla fine creare problemi di ordine pubblico. Il professore scelse quattro collaboratori stretti, due colleghi e due colleghe e, per spirito scientifico e per evitare ogni polemica, riuscì a comporre un team che raccoglieva tutte le diverse correnti di pensiero dell’epoca. La commissione selezionò in tempi rapidissimi dieci sottocommissioni ognuna formata da cinque membri, cui vennero distribuiti i compiti.



In pochi giorni, lavorando anche diciotto ore di seguito, i giovani ricercatori riuscirono a estrarre dai computer ormai silenti – nei musei di archeologia informatica erano conservati vecchi libri elettronici su dispositivi di memoria digitale, rinvenuti in locali sfascia bit o durante gli scavi – un cumulo di informazioni che, su nuovi, piccolissimi dispositivi, si accumulavano sui tavoli dei cinque coordinatori. Che da parte loro lavoravano tutto il giorno, scegliendo, selezionando, comparando informazioni. Riuscirono a ricostruire l’epoca – i fatti dovevano collocarsi circa un millennio prima, cosa che rendeva ancora più straordinaria la permanenza sulla lastra di marmo dell’isoletta di ceramica dalle forme precise che, in piccolo, riproducevano tutte le mappe di Nisida conosciute. Non riuscirono a mettersi d’accordo sulle tre lettere – due consonanti e una vocale – in rilievo sulla lastra finché una ricercatrice non fece una scoperta eccezionale: sulla base dell’isoletta c’era segnato qualcosa. Sottoposta la fragile ceramica con mille accortezze a più approfondite analisi, si arrivò alla conclusione che vi fosse scritto: a … seguito da tre lettere dell’alfabeto abbastanza chiare: e dopo alcune discussioni, più per l’esigenza di portare avanti le proprie teorie che per vera e propria necessità, si concordò che bisognasse focalizzare le ricerche su un ragazzo, dal nome ormai conosciuto approdato sull’isola un millennio prima per chissà quale motivo.



Immessi tutti i dati nei computer di ultima generazione, filtrati e rifiltrati decine di volte, riuniti più volte i suoi collaboratori, il presidente della commissione arrivò a ipotizzare a tutte le autorità, compreso il ministro dell’Interno, ogni giorno più ansioso che si facesse presto, anche un cognome, indicandolo come certo all’ottanta per cento, anche se lui, personalmente, ne era tanto certo che aveva già dato disposizione che le ricerche si concentrassero su quel nome.



I primi risultati confortarono e, insieme, sconfortarono la commissione. Vennero ritrovate centinaia di frasi su di lui, ma nessun testo completo, nessuna biografia: “Che tragedia – si dicevano vicendevolmente i professori – uno su cui si trova tanto e poi, invece, saranno state disperse le opere più complete…”. Ma c’era una difficoltà insita nei testi, che erano pieni di parole sconosciute: sorriso, dovere, servizio. Chiamarono degli specialisti in lingue antiche e anche un gruppo di donne che avevano raggiunto l’eccellenza in test attitudinali per una qualità ormai pressoché estinta: una forma di empatia grazie a cui, avuti dei dati, si poteva immaginare, mettendo i pezzi in un insieme coerente. E un gruppo di artisti psicologi che dovevano, dalle immagini eventualmente recuperate, fornire qualche indicazione sul suo carattere.

In capo a due mesi formularono un identikit di massima. Nonostante tutte le cautele e gli accorgimenti presi, l’immissione di nuovi ricercatori aveva provocato un allargamento delle strette maglie della segretezza e qualche notizia cominciò a filtrare all’esterno. I mezzi di comunicazione cominciarono a dare delle anticipazioni: un giovane uomo, bello, dotato di qualità alcune delle quali incomprensibili e, comunque, da studiare. Qualcuno fece anche delle ipotesi sul suo nome, arrischiando la lettera iniziale o facendo capire che era composto di sette lettere: sette lettere un nome, intitolò qualcuno, riprendendo un verso di un antico poeta, Pedro Salinas. Le notizie alimentarono attese e discussioni tra le persone e il ministro dell’Interno fece nuove pressioni sul presidente della commissione, che chiese e ottenne ancora altri ricercatori e altri strumenti d’indagine.



L’esimio professore era tentato di chiudere in fretta, mettendo insieme in qualche modo i dati fin lì raccolti, ma glielo impedivano la sua lunga abitudine allo studio serio e metodico e alcune piccole scoperte che la più giovane delle sue ricercatrici gli aveva consegnato. Sebbene si trattasse pur sempre di poche frasi, la sua competenza gli diceva che quelle parole facevano parte di un tutto unico, un libro: che andava ritrovato, assolutamente. E altre frasi, per la prima volta, legavano Nisida e quel Nome che per prudenza lui si era appuntato in varie agende manuali e informatiche scomponendone le lettere in modi strani per renderlo irriconoscibile. C’era poi un fenomeno che andava osservando da tempo, prima con curiosità intellettuale poi con una sorta di turbamento crescente: tutti i ricercatori avevano iniziato lavorando con impegno, ma col tempo questo elemento s’era sempre più intriso di emozioni. Ora, nel 3013 le emozioni erano ormai rare e, soprattutto, scattavano a comando: si decideva socialmente per che cosa bisognasse emozionarsi e, con un certo disinteresse oppure con ostentata forza, ci si emozionava. Ma, nella circostanza, non era così: l’emozione dei ricercatori era profonda, come un’acqua sotterranea che nessuno conosceva e a cui non potevano essere messi argini. Lavorano per ore e ore e avrebbero lavorato anche di più e ogni piccola frase, ogni immagine, ogni riferimento trovato era come se li colmasse di un senso pieno del loro essere vivi: o, meglio, di qualcosa di sconosciuto per cui aveva cercato una definizione e, tra tutte, pur parziale, era quella che gli sembrava approssimarsi di più. Sapeva che era riuscito a trovare delle parole perché riconosceva in lui medesimo segnali che lo stupivano e gli lasciano dentro scie di struggimento e di malinconia cariche di vitalità.



Arrivò un’inattesa fortuna. Una notte che il presidente e i suoi quattro collaboratori erano immersi nell’analisi di alcuni spezzoni di testi che forse si riferivano a lui e forse no, chiese d’essere ricevuta la più giovane delle ricercatrici. I capelli neri le scendevano a piccole onde sulle spalle e i suoi occhi erano fiammelle che avrebbero dato luce a quella stanza se per qualche ragione fosse caduto il buio. Riservata per carattere, era considerata una studiosa accurata e attendibile. Mai, qualche mese prima, si sarebbe presentata ai suoi capi chiedendo qualcosa né loro stessi l’avrebbero ricevuta: da entrambe le parti un tale comportamento sarebbe stato considerato del tutto sconveniente. Lo sguardo era fiero, ma la voce, tremante, sapeva di uno sconvolgimento delle viscere, di un battere del cuore all’impazzata. Per mesi, pur svolgendo al meglio i compiti che le erano assegnati, aveva svolto una sua ricerca parallela e marginale. Le era capitato un brano, solo un rigo, rivolto a lui, un “tiamooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo” che l’aveva indotta a cercare di lei. Non lo disse, ma si capì lo che considerava non un risultato d’un’analisi accurata e capillare, ma di un colpo di fortuna, o, meglio, d’un evento a metà tra il misterioso e il miracoloso. Porse al presidente la piccola mano inguantata di una sostanza speciale: “Visionate questo video, per favore”.



Le immagini erano sgranate, i caratteri dello scritto apparivano deformati e la musica di sottofondo gracchiava, eppure lo stato quasi ipnotico con cui lo visionarono non atteneva al loro compito attuale e, più in generale, alla loro professione, ma molto più semplicemente e insieme stranamente al fatto che il ragazzo di cui si parlava aveva molto amato e molto amore aveva lasciato. Strana parola, questa, “amore” ormai desueta da almeno cinque secoli. Ognuno dei cinque esimi professori allargava il petto e alzava le spalle, irrughendo il volto come ad analizzare con assoluta attenzione e imparzialità scientifica e ognuno di loro sapeva che qualcosa di simile a un cubo di ghiaccio gli si stava sciogliendo in petto e che, qualunque sforzo avesse fatto, mai sarebbe tornato ad essere come prima.



Il presidente acquisì il video, lo inserì tra i documenti più importanti finora trovati, quelli maggiormente secretati, chiese il massimo riserbo e congedò i colleghi dando loro appuntamento intorno alle dieci della stessa mattina. Quanto a lui, troppo stanco e agitato per cercare di dormire, si avviò verso la spiaggia davanti a cui fino a pochi anni prima sorgeva Nisida. Dal mare, calmo sotto un cielo stellato, sembrava provenire una musica che, nella mente, si materializzava in poche parole vere. Prese una decisione, sapendo che si stava giocando l’intera carriera, ma più ancora il rispetto e la considerazione che aveva per se stesso.



Quando finì di parlare a tutti i ricercatori, raggiunti all’alba da un ordine di servizio che diceva di radunarsi alle dieci in punto nella sala grande – una cosa mai successa perché, nel caso di comunicazioni collettive, erano state sempre utilizzate le videoconferenze – notò il respiro rilassato di molti e scoprì che quella che aveva appena indicato come nuova linea di ricerca – ovvero aprire all’esterno, provare anche se con cautela a chiedere la partecipazione di altre persone, formare piccoli gruppi di supporto – un po’ per capirci come certi gruppi fb di adesso – era, in piccole dimensioni e molto in segreto, cosa già messa in moto, o comunque considerata opportuna da molti. Anzi, altro termine desueto di cui gli parve di vedere un concretizzazione, sognata.



Le connessioni attivate sembrarono ravvivare la memoria collettiva e far rinascere i ricordi sopiti di ciascuno. Un ricercatore sulla quarantina, un inizio di pancetta e qualche pelo ingrigito sulla barba si sovvenne che una sua antica fidanzata – che non gli aveva mai perdonato modi e motivi della rottura – gli aveva un tempo raccontato che una sua trisavola aveva lavorato in un qualche carcere su un’isola e che aveva lasciato migliaia di libri, che erano stati trasferiti in una casa in una città dell’estremo sud del paese insieme a due o tre casse di carte che nessuno s’era mai preso la briga di controllare. Il ricercatore in questione, un tipo ironico e distaccato, venne preso da una a lui stesso incomprensibile urgenza di leggere quelle carte, come se lì ci fosse la soluzione di ogni problema. Aveva, a suo tempo, cancellato ogni traccia della fidanzata e non sapeva come rimettersi in contatto con lei e, nel caso, quale sarebbe stata la reazione di una donna il cui ultimo sguardo l’avrebbe voluto incendiare e le ultime parole seppellirlo vivo. Per qualche sortilegio, fu lei a chiamarlo per una informazione che solo lui poteva darle. Non sembrava ricordare il passato e non ebbe difficoltà a dirgli che non aveva problemi a lasciargli le chiavi della casa, abitata solo nei mesi estivi, perché ci facesse un salto il prossimo week end: per quanto ne sapeva nessuno aveva mai toccato quelle carte. Non fece domande, aveva troppi problemi per manifestare qualche curiosità che lo potesse mettere in imbarazzo.



Arrivarono in cinque, a notte fonda, nella casa sul mare, in una costa su cui si prevedeva un rivolgimento tra una cinquantina d’anni. Le cassette di carte stavano dove la proprietaria della casa le aveva lasciate: fogli sparsi, quaderni, qualcuno divorato dagli insetti, qualcuno che i prodotti antitarme erano riusciti, almeno in parte, a mantenere intatto. Trovarono bozze di progetti, schemi di lezioni, orari settimanali nelle classi. Trovarono anche degli opuscoli. Intorno alle undici del giorno dopo, esausti, si fermarono per un pranzo veloce con i cibi in scatola che s’erano portati dietro. Non avevano niente di più forte e brindarono ognuno con la sua lattina che più light non si poteva. La trama della storia si era ormai dipanata nelle loro mani.



Il quattro ottobre, proprio nel giorno in cui il ragazzo di cui avevano ricostruito la storia e il suo legame con Nisida compiva gli anni, la conferenza stampa segnò come l’inizio di un tempo nuovo.

Psicologi sociali e studiosi di molte discipline avrebbero poi prodotto studi monumentali per cercare di spiegare quello che era successo. Libri, film, fiction televisive, video: la storia del ragazzo che di professione faceva il politico e che a chiunque, nel suo breve passaggio, aveva regalato un sorriso, tempo e attenzioni, facendo di nuovo ingemmare cuori inariditi e scorrere nuove speranze e declinare possibilità di futuro entrò in ogni casa, in ogni scuola, in ogni luogo in cui si radunavano almeno due persone. Non era una moda, ma un interesse intimo e sincero, che placava l’anima e nello stesso tempo sembrava vincolarla al sogno di giustizia e verità che era stato suo.



Le arti crebbero, perché letteratura e pittura e musica cercarono mille forme per raccontarlo e la cultura ebbe uno strepitoso balzo in avanti, perché bisognò ristudiare la lingua di un tempo per cogliere il senso di parole di cui s’era perso il significato. Occupati com’erano a raccontarsi l’un l’altro con tutti gli strumenti a disposizione sempre la stessa storia – che sempre sembrava nuova e ogni volta che veniva raccontata o anche solo pensata senza accorgersi di pensarla rendeva tutti più buoni: migliori – non ebbero neppure il tempo di meravigliarsi perché gli uomini del suo tempo non l’avessero eletto a portavoce dei loro sogni. Come non capitava più da parecchi secoli, si diffuse un nuovo rinascimento, e soffiò sull’intero paese una primavera dell’anima.







Omaggio a Roberto Dinacci



Ho cercato degli aggettivi che possano, in qualche modo, descrivere Roberto. Me ne sono venuti in mente un centinaio e, mescolandoli tutti, potrei tentare d’intesserne un’immagine non troppo lontana dalla realtà. Ma vorrei limitarmi ad una sola considerazione: Roberto è soprattutto uno  sguardo e un profumo.





Roberto guarda il mondo con occhi limpidi: stupito e amareggiato di quanto male ci sia e, insieme, come incantato da tutte le piccole e grandi scintille di bene che intravvede.

È nella direzione di questo bene che rivolge tutte le sue energie – gioventù, intelligenza, competenza, lealtà, altruismo, disinteresse, fiducia, bontà - con entusiasmo e determinazione, animato dell’urgenza del fare e dalla necessità di coinvolgere quanti più sia possibile. Sembra che senta, prima ancora di pensarlo, che il male vada battuto soprattutto con l’espansione del bene.



Aperto al confronto, non cerca nemici. Accorto, prudente, cauto - pacato nei modi e bruciante di civile passione nell’intimo - Roberto ha l’ingenuità del puro di cuore e il coraggio di rischiare non per calcolo ma per integra capacità di amare.

Te ne accorgi soprattutto da come sta con i nostri ragazzi, da come il suo volto trascolori di fronte a certe storie di vita e i suoi occhi, pieni di rispetto e fiducia, si accendano davanti al minimo segno di una loro crescita.



Roberto guarda se stesso con serietà e umiltà. È perfettamente consapevole che può dare molto alla società ma avverte questa consapevolezza come un dovere morale imprescindibile: guarda con ironia e leggerezza al suo “ruolo” ma senza cedimento alcuno rispetto a quanto sente come ciò che deve fare. Roberto ha uno sguardo ampio, capace di valutare i grandi sistemi e  di soffermarsi sulle piccole cose: sa che il mondo si cambia a partire dall’aiuola della propria casa.


Roberto ha uno sguardo particolare per ciascuno di noi. Anche per me.
Capita che, durante le visite del ministro o in altre occasioni pubbliche concernenti il laboratorio informatico di Nisida/100Napoli, io debba parlare a nome del gruppo delle docenti o anche di tutti gli operatori. Roberto mi guarda per tutto il tempo, attento e sorridente, e alla fine ha un rapidissimo e contemporaneo movimento del volto e delle mani, con la testa che si abbassa e  gli occhi che si alzano: va tutto bene.
Nel sorriso solare che ogni volta mi rivolge non c’è nulla del pur eventualmente comprensibile compiacimento del ragazzo che, grazie al successo di un’iniziativa, accumula punti per la sua carriera politica. E non c’è solo cortesia, finezza, gentilezza d’animo, sensibilità.
È che Roberto ha preso completamente a cuore il progetto di Nisida, è felice quando vede i ragazzi sperimentarsi in esperienze positive che possano allargare i loro orizzonti, condivide la nostra fatica e i nostri sforzi, sembra grato alla vita di poter dare a loro e a noi il suo contributo.
Verso noi tutti ha uno sguardo discreto, perspicace, acuto, premuroso: si spende con semplicità, per facilitare il nostro lavoro, per consentire ai ragazzi una possibilità in più di reinserimento sociale.



Roberto è un profumo. Le sue parole sobrie, i suoi silenzi vibranti, i suoi gesti misurati, la sua sola presenza, ti lasciano dentro come la scia di una nota dominante – il suo cuore immenso, che cerca giustizia, verità, bellezza ed è capace di darsi totalmente – e fragranze sottili  e rare. Come se il canto fermo della sua anima – concentrata nel sogno di una diversa possibilità di essere uomini – si dispiegasse in contrappunti intensi e delicati.

Tutto, in Roberto, appare straordinario:  intelligenza di visione e bontà d’animo, adesione alle istituzioni e servizio ai più deboli e disagiati, cordiale libertà di giudizio e devozione e deferenza nei confronti delle persone, concentrazione sulle cose essenziali e disponibilità a regalare il proprio tempo. Eppure avverti che, per pudore, perché le perle più preziose del cuore vanno custodite in segreto, Roberto è ancora più unico di quanto lasci trasparire.



La morte ha spezzato la sua vita e il nostro cuore. Se ho usato il presente non è per attutire o negare il vuoto, lo strazio che ci accompagna. Se Roberto ha trasmesso anche a me, come a ogni ragazzo e ad ogni operatore di Nisida, in pochissimo tempo, in una conoscenza che sarebbe potuta rimanere di  mero lavoro, un mondo prezioso, di cui ho fatto solo qualche accenno, non è difficile capire l’atrocità della perdita di chi ha avuto con lui consuetudine e intimità di vita. Non c’è umana consolazione a questo dolore se non l’immensità e l’assolutezza del dolore stesso, che dice, insieme, come Roberto sia stato amabile e quanto l’abbiamo amato. 


Pur nell’abisso di una lacerante assenza, Roberto lo sento, con fiducia e gratitudine,  vivo e sereno. I suoi occhi lieti, fiduciosi, sorridenti -  luminosi ormai per l’eternità -  abitano le aule in cui facciamo scuola e le strade che percorro. Si affacciano all’improvviso negli angoli più impensati. Misteriosamente, mi si continuano ad offrire per guardare il mondo, almeno per un apice, come l’ha guardato lui.

















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