C’è un punto della costa che da Reggio va verso
lo Jonio che più d’ogni altro mi appartiene.
Nulla che abbia a che fare con proprietà definite
al catasto, ma piuttosto con quei colori, odori, sensazioni, che si sedimentano
nella prima infanzia e che, poi, ci si porta dietro per sempre, consapevolmente
o meno.
La piccola conca non è più l’idillio di brucare e
sabbia che la memoria ha fissato alle pasquette della prima infanzia, quando
sotto la grande mimosa, giocavo sbocconcellando il mio cudduraci a panierino.
Ma conserva tuttora molto del passato tanto che non è difficile immaginare,
almeno nell’ambientazione, la scena di un po’ di secoli fa, quando proprio qui,
uno dei miei antenati venne rapito dai turchi. E, poi, chissà come e
quando, da queste parti tornò, riprendendo le fila della sua vita da dove erano
state interrotte.
Prove? Solo antichi brandelli di ricordi,
frammentari e contraddittori, in qualche modo arrivati fino a me, e un
orecchino da uomo, cimelio preziosamente custodito eppure finito in mani ladre.
Ma, più forte di ogni prova documentata, è la
pacata accelerazione del respiro che mi lascia intravvedere, sul bagnasciuga –
ben oltre la percezione dello sguardo – orme ignote eppure familiari, mentre,
nello sciarbodio delle onde, si frangono e mescolano tutte le storie – dalle
migrazioni greche alle attuali – che, dei calabresi, hanno fatto pietre erose o
conchiglie limate.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo La conca del turco
Gli occhi erano carboni ardenti. Tempeste di mare
e di terra fuse nello sguardo di chi ha tutto sopportato –
umile e acceso da lampi di orgoglio, anche sfrontato, d’essere a nessuno
inferiore: al di là, naturalmente, della porta di casa, che, dentro, comandava
la madre.
Più non scese alla conca del turco, dov’era stato
rapito, né assaggiò pesce. Proibì alle donne di casa di lavare all'onda
trasparente del mare la lana cardata delle pecore. Comprò un pezzo di terra
seccagna, si spaccò la schiena zappando sotto il sole, la pelle già cotta da
salsedine e marosi, annerita e dura come dorso di mulo selvaggio. Piantò olivi
ruminando preghiere: “Signuri, assai mi lavuru e pocu ‘ma’acquistu”.
Portò l’orecchino, come indelebile marchio d'un
morto tornato in vita, fino a quando gli parve l’ora di affidarlo in custodia
al figlio primogenito. E, per molti anni, nella casa costruita con le pietre
dissepolte sull’apra collina, non entrò altra traccia d’oro.
Finché giunse la sposa dalle nere trecce più
volte arrotolate sul capo. Portava in dote due anellini leggeri leggeri. Uno
con una losanga romboidale e l’altro con due losanghe dello stesso tipo,
smaltata la prima di azzurro, punteggiato di bianco sui bordi, le seconde di
rosso con puntini di azzurro e di giallo.
Semplicissimi entrambi, richiamavano particolari
delle miniature arabe. Ma nessuno della famiglia lo sapeva.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo Le losanghe dei due anelli
Non si tratta semplicemente di mettere insieme i due pezzi. La veste in cui oggi proponi il tuo mosaico, Maria, contiene una magia che sa dire oltre le parole. E' un gioco di senso a rimpiattino, con la differenza che io lo inseguo e lui - anziché sfuggire alla mia presa - le si offre.
RispondiEliminaGrazie.