martedì 29 ottobre 2019

Piccole storie da Nisida: La sedia





Stiamo per ricominciare il Laboratorio di Scrittura (e di Lettura). In un luogo di storie spesso dimenticate a se stesse che proviamo a far venir fuori – perché ognuno è un prezioso racconto da narrare – ogni cosa, a volerla ascoltare, ha un mondo da raccontare. 

Accompagnerò il lavoro delle ragazze e dei ragazzi, provando a tradurre qualcuna di queste voci.

Van Gogh


1.      La sedia
  
Non so per quanto tempo sono stata in magazzino. Ogni giorno vedevo la serranda aprirsi, la luce scivolare sul pavimento, gente che cercava/prendeva qualcosa. Magari mi smuovevano, qualche volta mi hanno anche fatto cadere, ma mi lasciavano lì. Mi chiedevo che senso avesse aver perso il sole, la pioggia, il vento del mio bosco per essere dimenticata in un angolo. L’umidità non mi faceva bene.
 


Il giorno che m’hanno presa e portata in questa stanza così grande e luminosa provai quasi un fremito di inquietudine. Ero una sedia, ma non avevo mai fatto la sedia: ne sarei stata capace?

C’erano già tante, simili o uguali a me e tante altre ne stavano aggiungendo. Mi hanno spostata tante volte finché mi hanno messa a metà di una parete, al centro tra una dozzina di sedie. Alla mia sinistra c’era una finestra affacciata su una collina; davanti, una finestra da cui s’intravvedeva il magazzino e un’altra spalancata sul mare e sul Vesuvio.

La prima a sedersi su di me fu una ragazzina pelle e ossa, leggera leggera, non sembrava neppure che avessi qualcuno addosso. Percepii solo la forma delle natiche, nulla so delle spalle perché non le poggiò mai allo schienale. 

Al centro della stanza, un poeta – magro e basso, con i capelli raccolti a coda – leggeva i suoi versi. La ragazzina rimase per un po’ ferma, le gambe appoggiate alle mie gambe. Poi, cominciò a muoverle seguendo il ritmo dei versi. Quel suo su e giù mi diede la felicità del solletico.

Quando il poeta finì, la stanza si svuotò rapidamente e molte sedie furono portate via. Io fui spinta a destra e a sinistra, finii nell’angolo, caddi a terra due volte. E rimasi qui.

Ormai sono cinque anni che partecipo alle lezioni, tutte le mattine e alcuni pomeriggi. Questa è la stanza dove si fa il Laboratorio di Lettura e Scrittura. Così ho seguito le vicende del mondo e ascoltato un sacco di storie. Ho tenuto addosso ragazzi grassi e magri, ragazze bionde e brune. Una come me non dovrebbe avere preferenze, ma non è così. Mi sono affezionata a Carlo e ad Anna, ma il mio preferito è Giuseppe. Sono più contenta quando è lui che si viene a sedere su di me. 

Quand’è arrivato, pesava parecchio, facevo quasi fatica a tenerlo. Qui è dimagrito e allungato e gli è cresciuta la barba. Ha due tatuaggi, uno sulla gola, l’alto poco sotto la nuca, con in nomi delle sorelle: due gemelline nate molti anni dopo di lui, quando il padre, condannato a lunga pena, ha avuto il primo permesso premio. 

In questi anni, Giuseppe è cambiato più di altri. Prima si buttava su di me con rabbia, come se anch’io fossi colpevole del suo essere in carcere e anch’io moltiplicassi il suo fastidio di stare non solo in carcere, ma addirittura a scuola. La scuola, diceva, è peggiore del carcere.

Poi, è successo qualcosa. Non in un momento. A poco a poco. Ha cominciato a sedersi con gentilezza, le gambe più morbide, la destra sul tavolo, pronto a scrivere. Da asprigni, i modi sono diventati gentili. Lo sguardo sull’insegnante non più di sfida, ma di uno che, solo bevendo, capisce quanta sete aveva. Come se un po’ di sapere fosse la nuvola bianca in cui misurare la voglia di un’altra vita.

Dopodomani, Giuseppe esce. Di tutto ciò che ha vissuto a Nisida, non si ricorderà della sedia dove l’antica magia del mio essere stato un albero buono lo faceva sedere. E mai saprà quanto gli ho voluto bene.


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