Stiamo
per ricominciare il Laboratorio di Scrittura (e di Lettura). In un luogo di
storie spesso dimenticate a se stesse che proviamo a far venir fuori – perché ognuno
è un prezioso racconto da narrare – ogni cosa, a volerla ascoltare, ha un mondo
da raccontare.
Accompagnerò
il lavoro delle ragazze e dei ragazzi, provando a tradurre qualcuna di queste
voci.
Van Gogh |
1. La
sedia
Non so per quanto tempo
sono stata in magazzino. Ogni giorno vedevo la serranda aprirsi, la luce scivolare
sul pavimento, gente che cercava/prendeva qualcosa. Magari mi smuovevano,
qualche volta mi hanno anche fatto cadere, ma mi lasciavano lì. Mi chiedevo che
senso avesse aver perso il sole, la pioggia, il vento del mio bosco per essere
dimenticata in un angolo. L’umidità non mi faceva bene.
Il giorno che m’hanno
presa e portata in questa stanza così grande e luminosa provai quasi un fremito
di inquietudine. Ero una sedia, ma non avevo mai fatto la sedia: ne sarei stata
capace?
C’erano già tante, simili
o uguali a me e tante altre ne stavano aggiungendo. Mi hanno spostata tante
volte finché mi hanno messa a metà di una parete, al centro tra una dozzina di
sedie. Alla mia sinistra c’era una finestra affacciata su una collina; davanti,
una finestra da cui s’intravvedeva il magazzino e un’altra spalancata sul mare
e sul Vesuvio.
La prima a sedersi su di
me fu una ragazzina pelle e ossa, leggera leggera, non sembrava neppure che
avessi qualcuno addosso. Percepii solo la forma delle natiche, nulla so delle
spalle perché non le poggiò mai allo schienale.
Al centro della stanza,
un poeta – magro e basso, con i capelli raccolti a coda – leggeva i suoi versi.
La ragazzina rimase per un po’ ferma, le gambe appoggiate alle mie gambe. Poi,
cominciò a muoverle seguendo il ritmo dei versi. Quel suo su e giù mi diede la
felicità del solletico.
Quando il poeta finì, la
stanza si svuotò rapidamente e molte sedie furono portate via. Io fui spinta a
destra e a sinistra, finii nell’angolo, caddi a terra due volte. E rimasi qui.
Ormai sono cinque anni
che partecipo alle lezioni, tutte le mattine e alcuni pomeriggi. Questa è la
stanza dove si fa il Laboratorio di Lettura e Scrittura. Così ho seguito le
vicende del mondo e ascoltato un sacco di storie. Ho tenuto addosso ragazzi
grassi e magri, ragazze bionde e brune. Una come me non dovrebbe avere
preferenze, ma non è così. Mi sono affezionata a Carlo e ad Anna, ma il mio
preferito è Giuseppe. Sono più contenta quando è lui che si viene a sedere su
di me.
Quand’è arrivato, pesava
parecchio, facevo quasi fatica a tenerlo. Qui è dimagrito e allungato e gli è
cresciuta la barba. Ha due tatuaggi, uno sulla gola, l’alto poco sotto la nuca,
con in nomi delle sorelle: due gemelline nate molti anni dopo di lui, quando il
padre, condannato a lunga pena, ha avuto il primo permesso premio.
In questi anni, Giuseppe
è cambiato più di altri. Prima si buttava su di me con rabbia, come se anch’io
fossi colpevole del suo essere in carcere e anch’io moltiplicassi il suo
fastidio di stare non solo in carcere, ma addirittura a scuola. La scuola,
diceva, è peggiore del carcere.
Poi, è successo qualcosa.
Non in un momento. A poco a poco. Ha cominciato a sedersi con gentilezza, le
gambe più morbide, la destra sul tavolo, pronto a scrivere. Da asprigni, i modi
sono diventati gentili. Lo sguardo sull’insegnante non più di sfida, ma di uno
che, solo bevendo, capisce quanta sete aveva. Come se un po’ di sapere fosse la
nuvola bianca in cui misurare la voglia di un’altra vita.
Dopodomani, Giuseppe
esce. Di tutto ciò che ha vissuto a Nisida, non si ricorderà della sedia dove
l’antica magia del mio essere stato un albero buono lo faceva sedere. E mai
saprà quanto gli ho voluto bene.
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