mercoledì 2 ottobre 2019

Il Cristo tra i rifiuti di Lagioia e l'abdicazione della letteratura di Saviano, secondo Siti




Mi capita di leggere nello stesso giorno due scritti di grande interesse.

Uno è un saggio di Walter Siti, Preghiere esaudite. Saviano e l’abdicazione della letteratura. Lo si potrebbe ben sintetizzare con l’incipit «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti.»

Ne riporto un brano, riferito al libro fotografico del 2019 In mare non esistono taxi: «Il ragionamento di Saviano si basa su un postulato tanto diffuso quanto indimostrabile: che l’immagine sia più efficace delle parole, che ‘prenda più allo stomaco’. Verso la fine del libro, per dimostrare quanto un’immagine divenuta ‘iconica’ possa “farci sentire coinvolti e responsabili”, Saviano riproduce una foto famosa, di un bambino africano rannicchiato e morente mentre un avvoltoio alle sue spalle sta sinistramente aspettando che il cadavere sia disponibile. Mi viene in mente un breve racconto di Parise, in Sillabario n.2, che si intitola Fame: siamo al tempo della guerra del Biafra, Parise inviato del “Corriere della Sera” descrive un altro bambino africano accoccolato e intento ad arrostire, con fatica, un topo che poi mangerà. C’è un momento del racconto in cui passa uno sguardo di reciproca vergogna tra il bambino e il reporter, e per tener fede a quella vergogna Parise lima il suo stile fino a una sobrietà nitida e disumana – non c’è immagine al mondo che possa valere questa meditazione sul mestiere. Come nessuna immagine di Auschwitz potrebbe aggiungere un grammo al peso di Se questo è un uomo. Parola letteraria e immagine sono attività indipendenti e sovrane ciascuna nel proprio ambito, mentre Saviano nel libro sembra riservare alla letteratura un ruolo ancillare. Ecco, se in queste pagine non mi sono sottratto alla figura un po’ patetica del letterato vecchio stampo, è perché avverto intorno a me un clima culturale che tende a svilire la letteratura, confinandola ai compiti di denuncia e di intrattenimento – se fosse solo quello, allora è ovvio che non potrebbe reggere il confronto con mezzi espressivi più ‘potenti’. Volevo cercare di capire, nel caso specifico di un uomo che stimo, come quel progressivo svilimento fosse avvenuto: più Saviano acquistava ‘presenza’, più la letteratura è rimpicciolita dentro di lui.»




L’altro è una sorta di reportage Esquilino: il Cristo morto tra i rifiuti, che Nicola Lagioia, premio Strega 2016, ha scritto per sé qualche anno fa e ora ha condiviso su internet. È una riflessione, che meriterebbe altre riflessioni, sulla distanza tra il “discorso pubblico” in cui siamo immersi e chi è troppo povero per stare all’interno del sistema.

Comincia così: «A pochi passi da dove abito, nel quartiere Esquilino, a Roma, il giorno dopo il solstizio d’estate, alle tre del pomeriggio, tornando a casa trovo un vecchio signore gettato per terra, mezzo sepolto dalle buste d’immondizia, tra rifiuti alimentari ed escrementi. Schiena sull’asfalto, pancia all’aria, è possibile che sia appena morto.
Guardo meglio. Mi rendo conto che respira.
Nonostante il caldo sia quasi nauseante, l’uomo è vestito con un maglione che gli scopre il torso per metà. Deve esserselo sfilato via in un impeto di rabbia o di fastidio (o era disagio? o vergogna?) mentre crollava a terra. Colpo di sonno. Infarto. Stato d’ubriachezza. Accoltellamento. (Sulla gamba destra dei pantaloni si allarga una grande macchia rossa che potrebbe essere sangue). È una visione disturbante e al tempo stesso possiede qualcosa di ambiguamente mistico. Il Cristo morto tra i rifiuti. Se fossi andato più di fretta non lo avrei notato. Invece eccolo. Qual è il mio compito davanti a lui?
Da qualche tempo Roma è una discarica a cielo aperto. Piccole ziggurat di immondizia dominano la città a macchia di leopardo. Non siamo nell’estrema periferia. Direi anzi che siamo in centro. A meno di cinque minuti di motorino c’è Colle Oppio, il Colosseo, via dei Fori Imperiali. Da queste parti gli autocompattatori passano con un ritardo sempre maggiore rispetto a una cronologia ideale che non si capisce più bene quale sia. È un ritardo “naturale”. Sarebbe stato un ritardo “sempre più allarmante” secondo i canoni del vecchio paradigma. “Allarmante”, per dire la verità, lo definiscono ancora i mezzi d’informazione. “Allarmante degrado nella capitale”. Ma è come se parlassero da un’epoca che in certi contesti non esiste più. Il loro lessico – cioè il nostro – è ancorato al fuso orario di un continente in via di sparizione.
Non potrebbe essere altrimenti: gli abitatori delle terre emerse (i nuovi poveri, gli indigenti, i senza tetto, chi ha perso il lavoro negli ultimi anni, gli sfruttati per pochi euro al giorno che non sanno più dove sbattere la testa) reputano inutili i mezzi d’informazione. Non si prendono più neanche la pena di disprezzarli. L’inganno ai loro occhi è lampante. I mezzi di informazione – noi che ci lavoriamo, esattamente come gli uomini politici, o i dirigenti delle grandi aziende, ognuno nel proprio ambito – dichiarano di parlare in nome del bene comune, e in casi neanche troppo rari lo fanno in buona fede. Sulla base di questa presunzione ragionano, si indignano, polemizzano, propongono soluzioni per i grandi problemi del nostro tempo, sviluppano retoriche più o meno raffinate.
Ma quelli che lottano davvero per sopravvivere, cioè i poveri, sull’argomento hanno sviluppato una speciale sensibilità. Di conseguenza intuiscono che altrove, a molti gradini di distanza nella scala sociale, si sta svolgendo un’altra battaglia per non estinguersi. È quella che vede coinvolti editori e direttori di rete, caporedattori ed editorialisti, pubblicisti, presentatori televisivi, intellettuali, scrittori, così come (su un altro piano ancora) assessori, sindaci, parlamentari, leader politici. In questo caso è in gioco la sopravvivenza di status, perché solo per i poveri il pericolo di disintegrazione arriva ad affacciarsi sulla soglia decisiva: il corpo fisico.
Così, pur di sopravvivere in questi tempi difficili, i professionisti del discorso pubblico (compresi gli artisti quando, anziché quella dell’arte, si ritrovano a imbracciare la lingua dell’informazione) sono costretti a mentire anche più che in passato.
La menzogna non consiste tanto nel fabbricare o diffondere notizie false. La menzogna consiste nel simulare un sentimento che non c’è.
Non è un problema di scarso valore interiore dei singoli, è un problema di dispositivo linguistico da cui ci si lascia catturare.
Immaginate di voler scrivere una lettera di amore disinteressato, ma di avere a disposizione una tastiera stregata. Ogni volta che picchiate sui tasti per divulgare il vostro sentimento, la tastiera cambia le carte in tavola e comunica qualcosa di diverso. Quella tastiera è il discorso pubblico.
Il discorso pubblico è concepito per tutelare i suoi fruitori. Non è al servizio di un’idea che lo trascenda, pur dovendo richiamarsi continuamente a ideali superiori per darsi fondamento. Tutela i ricchi, i privilegiati, i proprietari di casa, i lavoratori ancora in grado di pagarsi un affitto, i detentori di un reddito buono o discreto o basso, i pensionati, i cassintegrati, i consumatori con un minimo potere d’acquisto. Non i poveri assoluti, non gli esclusi totali.
Al discorso pubblico, chi è fuori dal sistema non interessa affatto. Questo non toglie che il discorso pubblico (i media, gli uomini politici, gli economisti, le grandi aziende) auspichi che il numero dei poveri diminuisca. L’auspicio nasce tuttavia dall’esigenza di ampliare il proprio bacino di utenza, le proprie chance di sopravvivere, subito dopo il proprio potere. È questo che cambia tutto.
Fino a quando il povero resta tale – cioè fuori mercato – per noi è peggio che se fosse morto. È come se non fosse mai nato. Comincia a esistere solo dal momento in cui possiede una capacità di spesa, o (il caso della politica) la lotta per la sopravvivenza non è per lui così selvaggia da impedirgli di votare, o almeno (un corpo piacevole e relativamente sano) è ancora appetibile sul piano sessuale, fosse anche solo a livello contemplativo. Da questo punto in poi lo consideriamo un interlocutore. Prima di attraversare questa soglia, non riusciamo a riconoscere l’escluso come qualcosa di reale.»

1 commento:

  1. Non posso che essere d'accordo con Walter Siti e difendere l'efficacia della parola letteraria, più potente di qualsivoglia immagine. Saviano, per quanto creda anche lui nel potere della scrittura, è un giornalista, cerca l'immediatezza, la via più breve per comunicare. L'arte della parola, invece, non ha fretta, vive di indugi e pause, educa alla lentezza e all'immaginazione. Lo conferma Nicola Lagioia con il suo Cristo abbandonato tra i rifiuti, descritto come solo un letterato sa fare.

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