Uno è un saggio di Walter
Siti, Preghiere esaudite. Saviano e l’abdicazione
della letteratura. Lo si potrebbe ben
sintetizzare con l’incipit «Difendere la letteratura non è meno importante che
difendere i migranti.»
Ne riporto un brano,
riferito al libro fotografico del 2019 In
mare non esistono taxi: «Il ragionamento di Saviano si basa su un postulato
tanto diffuso quanto indimostrabile: che l’immagine sia più efficace delle
parole, che ‘prenda più allo stomaco’. Verso la fine del libro, per dimostrare
quanto un’immagine divenuta ‘iconica’ possa “farci sentire coinvolti e
responsabili”, Saviano riproduce una foto famosa, di un bambino africano
rannicchiato e morente mentre un avvoltoio alle sue spalle sta sinistramente
aspettando che il cadavere sia disponibile. Mi viene in mente un breve racconto
di Parise, in Sillabario n.2, che si intitola Fame: siamo al tempo della guerra
del Biafra, Parise inviato del “Corriere della Sera” descrive un altro bambino
africano accoccolato e intento ad arrostire, con fatica, un topo che poi
mangerà. C’è un momento del racconto in cui passa uno sguardo di reciproca
vergogna tra il bambino e il reporter, e per tener fede a quella vergogna
Parise lima il suo stile fino a una sobrietà nitida e disumana – non c’è
immagine al mondo che possa valere questa meditazione sul mestiere. Come
nessuna immagine di Auschwitz potrebbe aggiungere un grammo al peso di Se
questo è un uomo. Parola letteraria e immagine sono attività indipendenti e sovrane
ciascuna nel proprio ambito, mentre Saviano nel libro sembra riservare alla
letteratura un ruolo ancillare. Ecco, se in queste pagine non mi sono sottratto
alla figura un po’ patetica del letterato vecchio stampo, è perché avverto
intorno a me un clima culturale che tende a svilire la letteratura,
confinandola ai compiti di denuncia e di intrattenimento – se fosse solo
quello, allora è ovvio che non potrebbe reggere il confronto con mezzi
espressivi più ‘potenti’. Volevo cercare di capire, nel caso specifico di un
uomo che stimo, come quel progressivo svilimento fosse avvenuto: più Saviano
acquistava ‘presenza’, più la letteratura è rimpicciolita dentro di lui.»
L’altro è una sorta di
reportage Esquilino: il Cristo morto tra
i rifiuti, che Nicola Lagioia, premio Strega 2016, ha scritto per sé
qualche anno fa e ora ha condiviso su internet. È una riflessione, che
meriterebbe altre riflessioni, sulla distanza tra il “discorso pubblico” in cui
siamo immersi e chi è troppo povero per stare all’interno del sistema.
Comincia così: «A pochi
passi da dove abito, nel quartiere Esquilino, a Roma, il giorno dopo il
solstizio d’estate, alle tre del pomeriggio, tornando a casa trovo un vecchio
signore gettato per terra, mezzo sepolto dalle buste d’immondizia, tra rifiuti
alimentari ed escrementi. Schiena sull’asfalto, pancia all’aria, è possibile
che sia appena morto.
Guardo meglio. Mi rendo conto
che respira.
Nonostante il caldo sia quasi nauseante, l’uomo è
vestito con un maglione che gli scopre il torso per metà. Deve esserselo
sfilato via in un impeto di rabbia o di fastidio (o era disagio? o vergogna?)
mentre crollava a terra. Colpo di sonno. Infarto. Stato d’ubriachezza.
Accoltellamento. (Sulla gamba destra dei pantaloni si allarga una grande
macchia rossa che potrebbe essere sangue). È una visione disturbante e al tempo
stesso possiede qualcosa di ambiguamente mistico. Il Cristo morto tra i
rifiuti. Se fossi andato più di fretta non lo avrei notato. Invece eccolo. Qual
è il mio compito davanti a lui?
Da qualche tempo Roma è una discarica a cielo
aperto. Piccole ziggurat di immondizia dominano la città a macchia di leopardo.
Non siamo nell’estrema periferia. Direi anzi che siamo in centro. A meno di
cinque minuti di motorino c’è Colle Oppio, il Colosseo, via dei Fori Imperiali.
Da queste parti gli autocompattatori passano con un ritardo sempre maggiore
rispetto a una cronologia ideale che non si capisce più bene quale sia. È un
ritardo “naturale”. Sarebbe stato un ritardo “sempre più allarmante” secondo i
canoni del vecchio paradigma. “Allarmante”, per dire la verità, lo definiscono
ancora i mezzi d’informazione. “Allarmante degrado nella capitale”. Ma è come
se parlassero da un’epoca che in certi contesti non esiste più. Il loro lessico
– cioè il nostro – è ancorato al fuso orario di un continente in via di
sparizione.
Non potrebbe essere altrimenti: gli abitatori
delle terre emerse (i nuovi poveri, gli indigenti, i senza tetto, chi ha perso
il lavoro negli ultimi anni, gli sfruttati per pochi euro al giorno che non
sanno più dove sbattere la testa) reputano inutili i mezzi d’informazione. Non
si prendono più neanche la pena di disprezzarli. L’inganno ai loro occhi è
lampante. I mezzi di informazione – noi che ci lavoriamo, esattamente come gli
uomini politici, o i dirigenti delle grandi aziende, ognuno nel proprio ambito
– dichiarano di parlare in nome del bene comune, e in casi neanche troppo rari
lo fanno in buona fede. Sulla base di questa presunzione ragionano, si
indignano, polemizzano, propongono soluzioni per i grandi problemi del nostro
tempo, sviluppano retoriche più o meno raffinate.
Ma quelli che lottano davvero per sopravvivere,
cioè i poveri, sull’argomento hanno sviluppato una speciale sensibilità. Di
conseguenza intuiscono che altrove, a molti gradini di distanza nella scala
sociale, si sta svolgendo un’altra battaglia per non estinguersi. È
quella che vede coinvolti editori e direttori di rete, caporedattori ed
editorialisti, pubblicisti, presentatori televisivi, intellettuali, scrittori,
così come (su un altro piano ancora) assessori, sindaci, parlamentari, leader
politici. In questo caso è in gioco la sopravvivenza di status, perché solo per
i poveri il pericolo di disintegrazione arriva ad affacciarsi sulla soglia
decisiva: il corpo fisico.
Così, pur di sopravvivere in questi tempi
difficili, i professionisti del discorso pubblico (compresi gli artisti quando,
anziché quella dell’arte, si ritrovano a imbracciare la lingua
dell’informazione) sono costretti a mentire anche più che in passato.
La menzogna non consiste tanto nel fabbricare o
diffondere notizie false. La menzogna consiste nel simulare un sentimento che
non c’è.
Non è un problema di scarso valore interiore dei
singoli, è un problema di dispositivo linguistico da cui ci si lascia
catturare.
Immaginate di voler scrivere una lettera di amore
disinteressato, ma di avere a disposizione una tastiera stregata. Ogni volta
che picchiate sui tasti per divulgare il vostro sentimento, la tastiera cambia
le carte in tavola e comunica qualcosa di diverso. Quella tastiera è il
discorso pubblico.
Il discorso pubblico è concepito per tutelare i
suoi fruitori. Non è al servizio di un’idea che lo trascenda, pur dovendo
richiamarsi continuamente a ideali superiori per darsi fondamento. Tutela i
ricchi, i privilegiati, i proprietari di casa, i lavoratori ancora in grado di
pagarsi un affitto, i detentori di un reddito buono o discreto o basso, i
pensionati, i cassintegrati, i consumatori con un minimo potere d’acquisto. Non
i poveri assoluti, non gli esclusi totali.
Al discorso pubblico, chi è fuori dal sistema non
interessa affatto. Questo non toglie che il discorso pubblico (i media, gli uomini
politici, gli economisti, le grandi aziende) auspichi che il numero dei poveri
diminuisca. L’auspicio nasce tuttavia dall’esigenza di ampliare il proprio
bacino di utenza, le proprie chance di sopravvivere, subito dopo il proprio
potere. È questo che cambia tutto.
Fino a quando il povero resta tale – cioè fuori
mercato – per noi è peggio che se fosse morto. È come se non fosse mai nato.
Comincia a esistere solo dal momento in cui possiede una capacità di spesa, o
(il caso della politica) la lotta per la sopravvivenza non è per lui così
selvaggia da impedirgli di votare, o almeno (un corpo piacevole e relativamente
sano) è ancora appetibile sul piano sessuale, fosse anche solo a livello
contemplativo. Da questo punto in poi lo consideriamo un interlocutore. Prima
di attraversare questa soglia, non riusciamo a riconoscere l’escluso come
qualcosa di reale.»
Non posso che essere d'accordo con Walter Siti e difendere l'efficacia della parola letteraria, più potente di qualsivoglia immagine. Saviano, per quanto creda anche lui nel potere della scrittura, è un giornalista, cerca l'immediatezza, la via più breve per comunicare. L'arte della parola, invece, non ha fretta, vive di indugi e pause, educa alla lentezza e all'immaginazione. Lo conferma Nicola Lagioia con il suo Cristo abbandonato tra i rifiuti, descritto come solo un letterato sa fare.
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