Mi fa particolarmente piacere poter pubblicare sul mio Blog l'intervento del prof. Enrico Costa sul Canto di Natale di Clarles Dickens al Pellaro-Libri-Inverno del 27 dicembre 2017.
Quando
nel 1843 scrisse “Christmas Carol in prose” Charles Dickens (Portsmouth, 7
febbraio 1812 – Higham, 9 giugno 1870) aveva 31 anni e ed era già uno scrittore
di successo. Del 1836 è la “Trilogia di Londra” (“Sketches by Boz”, 1836), poi
“Il Circolo Pickwick” (“The Posthumous Papers of the Pickwick Club”, 1836-1837),
“Le avventure di Oliver Twist” (“The Adventures of Oliver Twist”, 1837-1839), “Nicholas
Nickleby” (“The Life and Adventures of Nicholas Nickleby”, 1838-1839), “La
bottega dell’antiquario”(“The Old Curiosity Shop”, 1840-1841), “Barnaby Rudge”,
1841, oltre ad avere scritto per il teatro di prosa e d’opera.
Quel
suo “Christmas Carol in prosa” (“in prosa” perché i Carols, i tradizionali
canti natalizi inglesi erano ovviamente in versi), ben presto divenne
semplicemente “Christmas Carol”, il primo “Libro di Natale” della storia
letterario-editoriale. E se Dickens non inventò propriamente un genere
letterario “natalizio”, – prima di lui, senza risalire alle sacre
rappresentazioni medievali, era fatto di poesiole canzoncine e novellette –, quantomeno
lo fece emergere e sviluppare –. E lo stesso Dickens dopo il “Canto” scrisse
quasi una all’anno altre quattro narrazioni natalizie, i famosi “Racconti di
Natale”–, e fiorirono da parte di altri tanti racconti, romanzi. Non mancarono
le riduzioni teatrali del “Canto”, opere originali per il teatro, e poi, più
vicini a noi, tanti film. Sono film con attori in carne ed ossa, cartoons, film
a pupazzi animati, alcuni piuttosto sdolcinati, molti altri molto meno. E poi
tanti fumetti, tra i quali l’indimenticabile e indimenticato è l’Uncle Scrooge
o Zio Paperone disneyano.
Gioco
forza era ormai nato un “genere” al quale appartiene di diritto, autorevolmente
– ma non so quanto ne fosse consapevole il nostro Eduardo, il “Natale in casa Cupiello”
–, al punto che quel suo “Te piace ’o presepe” dà il titolo a questa nostra “chiacchierata”
alla quale ho aderito con grande entusiasmo sapendo di trovarmi fra amici veri
e generosi come dovrebbe essere il Natale: vero e generoso.
Ora
però torniamo a Dickens e al suo “Canto”. È un libro che ritroviamo in libreria
o in biblioteca sia in edizione integrale, o ridotto a fiaba illustrata, o a
filastrocca, o a quant’altro l’industria editoriale italiana (e non solo) riesce
a inventarsi. Oltre a “Il canto di Natale”, come lo chiamiamo oggi fra noi qui
a Pellaro, e com’è noto ai più, abbiamo: le varianti minime (con o senza
articolo), “Cantico di Natale”, la “Ballata di Natale”, “Racconto di Natale”, “‘Na
cantata ’e Natale” alla partenopea, “Scrooge”, in audiolibro, la “trovata” di “Una
fantasia di Natale” (cioè “Il patto col fantasma”, il quinto e ultimo
“racconto” del Dickens natalizio), una per tutte le opere derivate: “Il gatto
che leggeva Dickens” di Stefania Conte, e, ovviamente, tutti e cinque i
“Racconti di Natale” (“The Christmas Books”): “Canto di Natale” (“A Christmas
Carol”, 1843), “Le campane” (“The Chimes”, 1844), “Il grillo del focolare” (“The
Cricket on the Hearth”, 1845), “La battaglia della vita”(“The Battle of Life”, 1846),
“Il patto col fantasma” (“The Haunted Man and the Ghost’s Bargain”, 1848).
La
trama[1] – racconto, racconto lungo,
romanzo o romanzo breve, come vogliamo chiamarlo, di genere fantastico
antesignano del fantasy (?) –, suddivisa in cinque “Strofe”, come fosse un
canto in poesia, è molto complicata, e qualche volta a tratti spaventosa come
molta letteratura ottocentesca, ma alla fine delle “Strofe” tutto diventa
semplice e il messaggio è chiaro: il Natale deve ritrovare il suo senso, già
allora lontano dai poveri, e oggi purtroppo ridotto a festival consumistico.
Il
libro è improntato a un forte senso critico nei confronti della società del suo
tempo. Un atteggiamento peraltro non nuovo in Dickens, che fu sempre in prima
linea nel combattere la povertà, lo sfruttamento minorile e l’analfabetismo
delle classi disagiate. Il “Canto” – quasi (fatte le debite proporzioni) un
“Canto” dantesco –, ci narra attraverso le cinque “Strofe”, di un vecchio senza
Dio, avaro ed egoista fino alla disumanità, Ebenezer Scrooge, che nella notte
di Natale riceve la visita di tre Spiriti (il Natale del passato, e quelli del
presente e del futuro). Preceduti da un’ammonizione del fantasma di Jacob
Marley, l’amico e socio di Scrooge nell’impresa di strozzinaggio e defunto da sette
anni, sono seguiti da una “Strofa” conclusiva. Sono incontri talmente intensi
da condurlo, giunti al loro termine, a una crisi a seguito della quale
quell’inguaribile tirchio si aprirà al prossimo e si convertirà.
Strofa prima. Il Fantasma di Marley
Siamo
nella Londra del 1843. Ebenezer Scrooge, ricco finanziere, ormai un vecchio egoista,
è avaro al punto tale da vivere come un povero che non possiede niente. Scrooge
è talmente avido che il Natale, come del resto ogni domenica, non è altro che una
perdita di tempo, un giorno di festa in cui non si lavora, non si commercia, e non
si guadagna denaro. Quell’affamato di soldi lavora ogni giorno, domeniche
comprese, più a lungo degli operai delle fabbriche, imponendo tali suoi orari anche
a Bob Cratchit, suo malcapitato impiegato, umile e pochissimo retribuito, al
quale concede con malavoglia di riposarsi solo il giorno di Natale, ma non la
Vigilia né a Santo Stefano.
La
vigilia di Natale, l’avaro camminando guarda storto e risponde male a chiunque
stia intonando un inno o “Carol”, cioè un tradizionale “Canto natalizio”, oppure
gli faccia gli auguri, come umilia l’incauto nipote Fred, figlio della sorella
Fanny morta da qualche tempo, rifiutandone l’affettuoso invito a cenare in
famiglia. Scrooge ama solo la compagnia dei suoi soldi, e non c’è concittadino
che gli voglia bene.
Rincasando
sotto la neve crede di riconoscere nel batocchio del portone il viso di Jacob
Marley, suo socio in affari morto e sepolto ormai da sette anni proprio la Vigilie
di Natale. Ne è molto turbato, non immaginando che quella visione è soltanto la
prima di una serie.
In
casa avverte rumori molto strani. Rumori di catene dalla cantina. Un carro
funebre invisibile si avvia nel buio pesto sulle scale. Tutte le campanelle della
casa oscillano una dopo l’altra e suonano sempre più forte, rimbombante. Tutto
ciò lo spaventa tanto. Si apre una porta e ne esce il fantasma di Marley che,
scoprendosi il volto lascia cadere la mascella, e Scrooge ne è terrificato.
Oggetti e materiali – lucchetti, timbri, portamonete, assegni, banconote –,
usati da due egoisti compari per far soldi e accumularli invece di fare del
bene al prossimo, formano una catena che cinge la vita del fantasma di Marley.
E davanti a lui scorre la carrellata di una vita d’egoismo, distante da chi
pure amava riamato. Ed è dannato al rimpianto della luce di Dio che, vagando in
un buio infinito, come pena gli è negata per l’eternità.
Riesce
appena a sollevarsi nel poter ammonire l’amico che sopporterà una catena molto più
lunga e pesante della sua, così come sarà ben più pesante la sorte verso cui si
avvia. Prima di sparire assieme ad altri fantasmi – usurai persino peggiori
degli avari –, Marley avverte l’antico socio della prossima visita di altri Spiriti
– il Natale passato, quello presente e quello futuro –, senza che Scrooge dal
cuore indurito, vada a dormire turbato più di tanto.
Strofa seconda. Il primo dei tre Spiriti
È
tutto bianco e avvolto da una luce sparsa dal suo capo incoronato, e all’una della
notte santa il primo dei tre Spiriti del Natale appare così a Scrooge. Ha
l’aspetto di una candela, con un cappello in mano a mo’ di spegnitoio, e un
ramo di agrifoglio, emblema natalizio. Egli conduce Scrooge indietro nel tempo
di un’infanzia dimenticata. Uno scolaro chiuso in collegio dopo la morte della
madre da un padre che vuole l’oblio dello stato vedovile, allontanando il
figlio primogenito. In un’aula buia e fredda il bambino è triste e solo. Non ha
amici e studia soltanto per evitare punizioni molto severe, secondo l’uso di
allora.
Era
un bimbo che ancora amava il Natale. L’azione si sposta in un’altra scena,
quando poco tempo dopo giunge la sorellina Fanny perché, convinto il padre a
richiamarlo in famiglia, possa ritornare a casa e ricominciare a gioire. E qui,
mentre lo Spirito gli ricorda il nipote Fred, ormai unico parente, da lui
respinto mentre lo invitava alla sua cena di Natale, dilagano i ricordi dell’affetto
per la madre e per la sorella, entrambe scomparse. Con Fred Scrooge fu davvero
sgarbato, e in lui affiora il rimorso. E via via quel bambino cresceva e stava
diventando ragazzo e poi uomo.
Prima
è un apprendista contabile che per il Natale accontenta il suo capo allestendo l’ufficio
come fosse una sala da ballo per festeggiare, cantando, giocando e scherzando
senza differenze di classe o d’età con amici e conoscenti. Il suo “padrone”
d’allora gli infondeva gioia, in contrasto con la tristezza che poi lui stesso,
a sua volta “padrone”, avrebbe inflitto al suo impiegato Bob Cratchit.
Poi
Scrooge appare nel proprio ufficio finanziario. È ormai adulto e ricco, ed è in
compagnia di Marley, il suo socio. Con lui c’è la sua fidanzata Bella – orfana,
povera e priva di dote –, che lo lascia, nella gelida indifferenza, per non
dire nel suo sollievo, ormai avido e avaro, per non essergli d’intralcio in una
carriera ben avviata col socio Marley.
Da
quel giorno la sua unica compagnia sarà solo il proprio denaro.
Per
Scrooge quella visione è un tormento che chiede allo Spirito di far cessare,
mentre al contrario, quasi infierendo, è trasportato a una cena di Natale del
passato, dove riconosce Bella, da anni sposata, in compagnia del marito e della
numerosa prole. Una famiglia povera ma felice. Mentre lei fa del sarcasmo con
lo sposo su Scrooge, si viene a sapere che Marley è sul letto di morte, solo e
senza il conforto del suo vecchio amico.
Scrooge
è preda di paure e rimorsi, e fa scomparire lo Spirito che lo guida nel viaggio
spegnendo col cappello quella candela, ma il Fantasma, come un diluvio inonda tutto
il pavimento della propria luce, racchiusa nel copricapo, facendo entrare nel
terrore il vecchio usuraio. Che si ritroverà nella sua camera e nel suo letto
mentre nell’attesa dell’incontro con lo Spirito del Natale Presente s’è addormentato.
Strofa terza. Il secondo dei tre Spiriti
Nel
cuore della notte Scrooge è svegliato dal secondo Spirito, quello del Natale
Presente, Father Christmas, un personaggio assai simile alla figura di Babbo
Natale. Gigantesco, allegro, gioviale e sorridente, egli colpisce per la barba
e per i capelli ricci, lunghi e rosso-castani, con indosso un abito verde orlato
di pelliccia bianca. Sul capo ha una corona di agrifogli e in mano una torcia
incorporata in una cornucopia e siede su un trono fatto di cibi natalizi. Egli
afferma che i suoi fratelli, uno per ciascuno dei Natali dell’era cristiana,
sono più di 1800, poi accompagna Scrooge tra famiglie che stanno trascorrendo
il Natale.
Nelle
famiglie visitate regnano la pace e la serenità, pur senza avere tanto denaro
quanto Scrooge. Visitano non visti la famiglia del suo impiegato, il
sottopagato Bob Cratchit. La cena di Natale è povera, ma sono felici lo stesso,
e tra loro c’è tanta serenità, malgrado che per il figlio più piccolo, Tim, storpio
e malato, non ci sia abbastanza denaro per curarlo, e senza medicine forse
morirà. Ciò non toglie che brindino al signor Scrooge, che si commuove e chiede
allo Spirito se le cose non cambieranno, e se il piccolo Tim vivrà. Lo Spettro,
invece, ne predice la morte, e gli ricorda quelle sue ciniche parole – “Così
diminuisce la popolazione in eccesso” –, dette a chi si batteva per i bimbi
poveri.
Poi
quel Father Christmas porta Scrooge da altre persone semplici e in festa per il
Natale. Minatori che radunati attorno a un focolare intonano in gruppo canti
natalizi. Due guardiani del faro che in solitudine cantano, brindano e augurano
l’un l’altro il Buon Natale. Marinai in mezzo all’oceano che sul loro bastimento
si scambiano gli auguri rivolgendo un commosso pensiero alle loro famiglie
lontane e sole.
Lo
Spettro riconduce a Londra Scrooge, pieno di stupore, nella casa di suo nipote Fred
che felice, con i suoi amici e i suoi parenti, sta trascorrendo il Natale.Parla
dello zio, del suo impossibile carattere e dei suoi atteggiamenti, ridendone ma
anche parlandone con insospettato affetto, e brindando con gli altri, cosí come
aveva fatto anche Bob Cratchit, alla sua salute. Come ultima tappa, lo Spettro fa
salire Scrooge su una torre campanaria, dove gli annuncerà che, poiché la propria
vita di fantasma dura solo una notte, a mezzanotte morirà. I suoi capelli
stanno già diventando grigi, e d’improvviso spalanca la veste scoprendo due
bambini nascosti ai suoi piedi. E non sono bambini felici come, nell’innocenza
dell’infanzia, dovrebbero essere tutti i bambini.
Strappati,
rattristati e poverissimi, sono l’immagine dell’Ignoranza e della Miseria,
destino imposto come una condanna da parte delle classi alte cui Scrooge, ora sconvolto,
appartiene. Intanto scocca mezzanotte e lo Spirito del Natale presente muore col
cuore disintegrato dai dodici rintocchi delle campane di San Paul, la
cattedrale. Ormai scheletrico e ancor più invecchiato, cadendo a terra, con la
sua vita si spegne anche la sua torcia. Mentre Scrooge gli chiede che fare dei
due bambini, dove alloggiarli, il maschio, immagine dell’Ignoranza si tramuta
in un adulto volgare e violento destinato al carcere, e la femmina, immagine
della Miseria, si trasforma in una prostituta disturbata mentale destinata al
manicomio. Entrambi gli rinfacciano le sue stesse parole – “Mancano le
prigioni?” e “Non funzionano gli ospizi?” –, come risposta ai benefattori che
gli parlavano della povertà e della criminalità. Lo Spirito al decimo rintocco
è già uno scheletro, e al dodicesimo non è altro che polvere. Poi, mentre Scrooge,
smarrito, sta vagando nella nebbia, giunge il terzo e ultimo Spirito.
Strofa quarta. L’ultimo degli Spiriti
Lo
Spirito del Natale futuro si presenta a Scrooge come la personificazione della morte.
È altissimo, allampanato, e lo avvolgono un mantello e un cappuccio neri. Si
vede soltanto una mano ischeletrita che sporge dalla manica del mantello, e lo
Spettro, il più triste dei tre, vuole inculcare in lui la paura del futuro. Scrooge
chiede di parlargli ma non gli risponde. Imperscrutabile e sempre silenzioso,
comunica soltanto col dito indice.
D’un
tratto si ritrovano nel Natale successivo, quello del 1844, presso la City di Londra
dove, nell’ambiente della finanza non si discute d’altro che della morte di un
vecchio piuttosto avaro, che tutti odiano e deridono. Il suo funerale è ormai
prossimo e due banchieri ne parlano tra loro. Uno vi andrà come atto dovuto,
l’altro per godersi la cena del funerale in spregio alla tirchieria del defunto.
Dopo i ricchi banchieri, un padre molto povero, debitore del morto, l’animo sollevato
da questa dipartita spiega in famiglia che chiunque sarà il prossimo creditore,
sarà comunque più umano con i debitori.
Ciò
che disgusta Scrooge è assistere a ciò che accade nella miserabile baracca di un
rigattiere. Mrs. Dillber, l’anziana domestica, con altri suoi servitori, sta
svendendo tra le risate ciò di cui hanno potuto fare man bassa in casa sua,
sfilando alla sua salma persino la camicia. Che brutta morte lo aspetta,
comprende Scrooge mentre lo Spirito gli mostra il suo cadavere sopra il suo letto
di morte, se non si sforzerà di cambiare!
Poi
in casa di Bob Cratchit, il suo compassionevole impiegato, la povera famiglia è
annientata dal dolore per la morte del bimbo che la miseria non gli ha
consentito di curare con le medicine che avrebbero potuto acquistare se lui non
l’avesse sempre sottopagato. Scrooge, miserabile sfruttatore, li osserva
annichilito, senza fiatare. In conclusione gli viene mostrata quella che sarà
la sua tomba, deserta se non fosse per la visita di Fred, suo nipote, più
felice per l’eredità del patrimonio che addolorato per la sua morte.
Tutto
ciò che ha veduto – compresa la tomba del piccolo Tim, e la voragine che all’improvviso
si apre una sotto la propria tomba –, conduce il vecchio peccatore a pentirsi
di tutta una vita di malefatte. E Scrooge, mentre è inghiottito dalla voragine,
chiede perdono a Dio.
Si
aggrappa a una radice sporgente dal baratro e assiste così a una visione
infernale: sul fondo di quel baratro le fiamme sbucano dalla sua bara vuota e
illuminano la disperazione sul volto dei dannati. Chiedendo il perdono, mentre giura
di cambiar vita, precipita fino a ritrovarsi all’interno di quella bara.
Strofa quinta. Come andò a finire
Scrooge
si risveglia nel proprio letto rendendosi conto d’essere ancora vivo e che è il
mattino del giorno di Natale. Affacciandosi alla finestra chiede la conferma a
un ragazzo di passaggio, e lo manda al negozio lì nei pressi ad acquistare il tacchino
più grosso. Regalandogli una bella mancia, atto per lui clamoroso, gli chiede
di recapitarlo in casa di Bob Cratchit. Sbarbato e ben vestito, esce da casa, affabile
saluta tutti, compresi coloro ai quali aveva rifiutato il denaro per i più
bisognosi, chiedendo loro scusa e donando molto denaro in beneficenza.
Poi
va a trascorrere il più bel Natale della sua vita in casa del nipote Fred. Il
giorno dopo non manca di concedere all’incredulo Bob Cratchit un bell’aumento
di stipendio, diventando poi – con l’anima placata, in pace e amato dal
prossimo –, un suo buon amico e per il piccolo Tim, che con le medicine si sarà
salvato, sarà un secondo padre.
Se
con questo “Cantico” Dickens ci avrà trasmesso il suo giusto sentire natalizio,
che già allora mostrava segni almeno conformistici, impegniamoci per vivere un
Natale, un anno dopo l'altro, che non può essere tale se non strettamente
collegato al suo messaggio di salvezza. Messaggio che il “Politically correct”,
in una girandola di doni inutili, biglietti e frasi fatte presunte augurali,
tende a nascondere, celandolo attraverso ipocrite parafrasi o perifrasi: Buone
Feste, Buone Feste Natalizie, Buone Feste di fine anno, o tout court “Buon
Anno”.
Auguri che qualche volta lasciano
stupefatti. Intanto non sono obbligatori, ma se li fai partire prima del 25 dicembre,
non puoi cancellare la parola “Natale”. E allora, se ti arrivano prima di
Natale, che senso ha augurare Buon Anno saltando il “Natale”? Si aspetti
qualche giorno e festeggiamo direttamente l’anno nuovo. Se poi nel tuo
cartoncino togli il Natale e aggiungi una citazione non evangelica, non
letteraria – per esempio di Dickens o di Eduardo –, ma come può capitare, e
capita, ad esempio del pur rispettabile Dalai Lama, temi per questa società che,
se non è già impazzita, è ormai molto prossima all’impazzimento.
[1] “Il Canto di Natale” (“A
Christmas Carol: A Goblin Story of Some Bells that Rang an Old Year Out and a
New Year In”).
Le foto sono di Nino Ferrara.
Locandina di Cecilia Latella
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