A
raccontarne la trama, Stoner può apparire
un libro noioso e tristanzuolo. Ma non è così. La vita silenziosa del
protagonista – il suo costante “non importa” che supera l’io debordante di tanto
narcisismo letterario – incatena alle pagine e lascia emozioni profonde.
Un’esistenza
“fallimentare” – come lo stesso Stoner la definisce nell’approssimarsi della
morte (pagine straordinarie quelle che accompagnano la fine del protagonista) –
dove la vita non viene mai maledetta, anzi quietamente abbracciata nei suoi
limiti. Una vita qualunque narrata senza ombra di qualunquismo.
L’unica
svolta effettiva di Stoner è il suo passaggio, all’Università, da Agraria a
Letteratura Inglese. Dall’emozione all’ascolto di un sonetto di Shakespeare al
suo primo (e unico) libro, dall’incontro con gli studenti, alle lezioni c’è
davvero tanto dell’essere insegnante.
Non uno eccelso, uno qualsiasi, mediocre si
dirà lui stesso, eppure uno il cuore batte davanti a certe parole: «L’amore per
la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che
si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e
parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva
nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in
modo incerto, poi con coraggio maggiore. Infine con orgoglio».
La
letteratura non gli dà strumenti per affrontare in maniera migliore il rapporto
con la moglie (un matrimonio fallito già entro il primo mese), la figlia (che
perderà la bellezza infantile scappando dalla pessima aria dei suoi genitori),
la giovane amante (che si sacrificherà per evitargli troppi problemi), ma resta
la sua ancora interiore, quella per cui, nonostante ogni limite ed errore,
manterrà una sua dignità. E che gli consente, arrivato alla fine, di avere una
consapevolezza: «Era se stesso e sapeva cosa era stato».
Un
libro bellissimo. Da rileggere.
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