La mia Calabria non è che un pezzo minuscolo di
terra (campagna e collinette) e il mare, immenso e circoscritto, che s’affaccia
sull’Etna, una sorta di triangolo isoscele che contiene i secoli di storia che mi porto dentro.
Era un pezzo di terra-mare di bellezza semplice,
umile, e, insieme, assoluta e commovente, involgarito e abbruttito, nel tempo,
dal tragico combinato composto di troppe (grandi) incurie e troppo (piccoli)
interessi.
Quest’anno, si è aggiunto un guaio al cumulo dei
guai. Sugli alberi, frutta non ce n’è, quella che supermercati offrono sa di
poco e niente. Non è un problema solo locale. Anche in altre parti del paese,
ho verificato la stessa situazione. Il clima strambo, l’inquinamento
(aria, acqua, terra) crescente, un’attenzione all’agricoltura di molto
inferiore alle necessità.
Che manchino (o siano troppo pallidi) i felici
colori della brutta estiva, quel profumo di nettare degli dei che rallegrava la tavola, è un altro
grano triste del rosario di tristezze che anno dopo anno si aggiungono (non
voglio qui parlare dei tremendi olezzi che costringono a percorre alcuni pezzi
della vecchia Nazionale coprendosi bene naso e bocca).
Non è anno, questo, per fare marmellate, una delle occupazioni estive più rituali e, per me, gradite.
Nel fare la spesa, mi colpiscono due usi costanti nel tempo. 1. Qui si compra tanta
provola Galbani. Era la provola che si usava decenni
fa, è la provola dei panini di oggi. 2 Chi vuole coccolarsi, chi vuole
festeggiare, chi vuole onorare l’ospite, va a comprare il pescespada. Passando davanti
alla pescheria, anche se le canzoni poco fanno parte del mio mondo, mi ripassa
in mente come la scia della voce di Modugno.
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