Il
termine, l’avevo lasciato alla scuola elementare, se non all’asilo. Dove me l’avevano
insegnato a fare, l’inchino. Per la madre superiora, per il vescovo in visita. Era
un gesto gentile, che, più che omaggiare l’autorità del caso, pareva perfetto
per dare un’idea della delicatezza, della grazia, della bellezza delle bambine
che piegavano armoniosamente le ginocchia e allargavano le vestine con le mani
ad arco come nello sbocciare di un fiore.
Poi,
per decenni, è stato un termine che non ho più sentito.
Fino
al funesto inchino della Concordia.
E
al blasfemo inchino di Oppido.
Che
non mi pare l’unico in Calabria.
È tempo
di chiudere con le processioni e i cosiddetti festeggiamenti civili delle feste religiose: le luminarie, i cantanti,
i giochi di fuoco nella notte, tutto un luna park senza senso.
Chi
vuole adorare Dio e onorare i santi ha altre strade: più silenziose, più
sobrie, magari più nascoste, ma più luminose.
Gli
inchini (e sobri) restino solo un gesto armonioso delle ginnaste e delle
danzatrici.
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