Un
ragazzo/una ragazza che arriva a Nisida non ha, quasi mai, un atteggiamento
naturalmente positivo rispetto alla scuola. Ci inizia ad andare perché il suo
andarci fa parte degli obblighi che gli vengono imposti. E’, quindi, una grossa
sfida, per i docenti, provare a innestare curiosità e interessi che intacchino
la “chiusura” verso tutto ciò che sia sintetizzabile come “istruzione”.
Delle
quattro abilità linguistiche di base – ascoltare, parlare, leggere, scrivere –
la scrittura viene spesso percepita, dai ragazzi di Nisida, come meno ostica
rispetto ad un dibattito o ad una lettura che implichi la comprensione del
testo.
Superato
il fastidio iniziale della pagina bianca e del “come posso cominciare?”
(“Come vuoi… come me lo diresti a voce…"), il ragazzo/a si avverte più
“protetto”/meno esposto in uno scritto che in una conversazione e, questo, lo
rende più disponibile a “raccontarsi”.
Soprattutto se:
- si ha
l’accortezza di non porgli domande troppo dirette (mai: parlami di tua madre;
piuttosto: quali sono i tuoi cibi preferiti, dove una frase sulla madre
comparirà);
-
si valorizza continuamente lo
sforzo che fa per scrivere qualunque sia il risultato;
- si riesce a
trasmettere il senso che il lavoro che sta facendo è, nello stesso tempo, un
lavoro personale e un lavoro collettivo: che ognuno, dando il massimo,
contribuisce al buon risultato di tutti e, nello stesso tempo, il buon
risultato di tutti, ha un positivo effetto sui risultati del singolo.
Il
ragazzo/a che scrive:
-
ottiene, almeno in quel momento, un
abbassamento delle sue ansie e tensioni, con positiva ricaduta sull’intero
gruppo;
-
ordina i suoi
pensieri, reazioni e sentimenti, esercitandosi a pensare prima di agire, a
cogliere i nessi di causa-effetto tra le proprie azioni e le loro conseguenze;
-
impara a… scrivere,
cosa che gli dà una particolare fiducia nelle sue possibilità (perché, di
solito, parte esattamente dal punto opposto: che non sa scrivere, che non è
cosa per lui, ecc. ecc.)
E,
questo, vuol dire, che, innestato un processo positivo, diventa più semplice
per i ragazzi cominciare ad accumulare risultati positivi (scrittura più
fluida, meno errori di ortografia, una maggiore chiarezza di pensiero, un uso
più articolato della fantasia).
II
Nel
nostro Laboratorio di Scrittura,
-
i ragazzi
scrivono a mano e, talvolta, ripassano i loro testi al computer. Considero
l’uso del computer una grande risorsa in generale e anche nello specifico della
scrittura, ma, per quanto concerne il nostro relativo Laboratorio, mi sembra
più opportuno (poiché nessuno strumento è neutro) un rapporto meno mediato, più
fisico, tra il ragazzo e un gesto (quello dello scrivere) che (lettere ai
familiari a parte) gli è ben poco abituale;
-
spiego, in
generale, quando la “e” deve essere o meno accentata, ma non correggo mai, sul
foglio del ragazzo, gli errori di ortografia se non dopo mesi e mesi che sta in
classe e quando è lui stesso che, ormai più fiducioso di sé, chiede di capire
se ci sono parole scritte in maniera sbagliata (l’ortografia l’ho sempre
corretta sul foglio da stampare, per evitare il per me insopportabile effetto
Speriamo che me la cavo);
-
non correggo mai
neppure la sintassi: anche lì dove non è formalmente perfetta, è troppo legata
al modo di pensare e di sentire: ogni intervento in materia snatura la genuina
sensibilità del ragazzo, lo convince che la scrittura è qualcosa di
artificioso, in cui deve nascondersi e/ o mostrarsi altro da sé (ovvero
l’esatto opposto di una scrittura che abbia effettivamente senso per lui e per
chi lo voglia davvero leggere).
III
L’esperienza
più recente, quella in atto dal 2008, che ha portato alla pubblicazione di
cinque volumi di Racconti, raccorda in maniera sempre più chiara due elementi:
-
da una parte il
riconoscimento che qualsiasi ragazzo, anche quello più relazionalmente
difficile e cognitivamente deprivato ha delle cose da dire: che possono essere
più o meno formalmente corrette, più o meno originali, più o meno ben espresse,
ma che, tutte, vanno ascoltate con attenzione e valorizzate;
-
dall’altra la
consapevolezza che il riconoscimento di sé, il rafforzamento delle competenze,
la disponibilità dei ragazzi ad investire ancora tempo ed energie nella fatica
della scrittura passa dal “rispecchiamento” che gli viene offerto.
La
mediazione della “riscrittura” da parte di un esperto di parole di quanto
scritto dai ragazzi corrisponde a due obiettivi. Il primo, che riguarda il non
semplice rapporto carcere-territorio, consiste nel restituire il messaggio,
all’esterno, nella sua interezza, ma deprivato della sempre possibile strumentalizzazione
delle singole storie.
Il
secondo, invece, riguarda più specificamente i ragazzi, per i quali vale
particolarmente il principio “tu che mi guardi, tu che mi racconti”: perché
rileggere le loro storie come trascritte da un altro consente di operare sia un
processo di distanza che un processo di identificazione. Favorisce, cioè, nei
ragazzi/e, la creazione di spazi di ripensamento, la presa di coscienza della
propria realtà, l’elaborazione, possibile, di una diversa proiezione di se
stessi.
IV
Un
aspetto della scrittura che mi sembra particolarmente affascinante è il suo
essere semplice, sobria, quasi povera. Perché, per scrivere – a parte qualcosa
da dire – bastano un foglietto di carta e una biro, anche una matita. Che, con
così poco, si possa fermare per sempre un pensiero, un’emozione e condividerli
con gli altri, è una potenziale ricchezza per
ciascuno, da valorizzare in ogni contesto (altra cosa è il pubblicare, che
meriterebbe un discorso a parte). Ma, anche, un antidoto educativo, in una
società in cui, nonostante la crisi economica generale ormai in atto da anni,
una parte dei ragazzi è indotta a crescere con la convinzione che il
possesso di cose, magari anche utili ma non certo indispensabili (come il
modello più accessoriato di telefonino), sia elemento costitutivo dell’essere.
E, in un luogo, come il carcere minorile, dove – senza tralasciare le gravi e
molteplici cause personali, familiari e sociali di tale deriva – più facilmente
si approda quando la giovinezza ruota sull’acquisizione, facile, rapida e
illecita, del denaro.
Un
altro aspetto della nostra, non solo recente, esperienza di scrittura che mi
piace evidenziare è il processo di spostamento dello sguardo del ragazzo che,
anche con la scrittura, proviamo a suggerire. Sia quando abbiamo cercato, con la Trilogia dei Racconti per Nisida, di dar loro la possibilità di un confronto
altro col tempo e lo spazio della loro quotidianità. Sia quando abbiamo
utilizzato in maniera diversa la grammatica e la sintassi come coordinate della (ri)costruzione dell'io.
Se
richiesti, i nostri ragazzi presentano, di solito, una disponibilità a completare
i classici esercizi grammaticali relativamente alta e, in ogni caso, molto più
alta, che quella, per fare un esempio, di raccontare la trama di un film.
Assumono, infatti, l’esercizio non come attenzione alle complesse modalità
della lingua, quanto, piuttosto, come un’accettabile modalità di passare il
tempo della lezione non pensando.
Portare
l’attenzione su come le regole della lingua non siano una sorta di cruciverba
da fare innestando una specie di pilota automatico (e vada come vada), ma fanno
parte della quotidianità anche di chi non le conosce (chiunque, anche privo di competenze specifiche,
comprende bene la variante tra: vado a Roma e vengo da Roma) apre a curiosità culturali che possono innescare processi di crescita.
V
Un
ragazzo che scrive e, soprattutto, che scrive qualcosa, anche minimamente
intima, è (che le esprima o meno) pieno di domande sul giudizio che l’adulto dà
del suo scritto e, anche, di sospetti, sull’uso che, eventualmente, ne possa
fare. Questi sospetti vanno decostruiti dall’interno, rispettando quanto
ciascuno ha scritto e quanto non ha scritto e mostrando che, comunque,
qualunque cosa abbia espresso, ogni ragazzo merita ascolto e considerazione.
Che
una persona gli restituisca sotto altra forma quanto lui ha scritto consente ad
ogni ragazzo di “vedersi” (ma vedersi in maniera “tranquilla”, non sotto
giudizio), di prendere atto che un pezzetto di quella storia è sua (che vuol
dire anche che, quella storia, la vorrà leggere, per ritrovare tutti i suoi
contributi), di consolidare il pensiero che, evidentemente, è capace di fare
anche cose “buone”, anzi che lui e i suoi compagni possono fare cose buone,
ovvero che non tutto è “già dato”, ma che, forse, magari, chissà, può anche
ipotizzare un cambiamento nella sua vita.
A
questo si collega un elemento che a tutti gli operatori di Nisida (direzione, educatori, agenti,
formatori ecc. ecc.) sembra essenziale per un ragazzo in carcere: evitare ogni
ulteriore “separazione”, “marginalizzazione”; “marchiatura”, quindi costruire
continuamente occasioni di scambio: in maniera che le voci dei ragazzi arrivino
all’esterno e che dall’esterno arrivino altre voci. Insomma, che si creino
condizioni perché i ragazzi possano essere conosciuti al di là del reato –
persone in crescita e non anni di pena – il che significa, anche, che la
società nel suo complesso deve imparare a farsi carico di problemi che sono
problemi della comunità.
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