Ad una presentazione, la
relatrice ripete, con convinzione, che il libro di cui sta parlando “va letto
in tutte le scuole di ogni ordine e grado”.
Tralascio l’ovvia domanda
che pure mi s’affaccia – ammesso che ne esistano, quali e quanti saranno mai i
libri da far leggere in tutte, dicasi: tutte, le aule scolastiche dalle
elementari al diploma – per soffermarmi sull’impatto che l’esperienza di dolore
estremo vissuta da chi scrive può avere su chi legge.
Perché, se si legge un libro
in cui una madre racconta della figlia morta ragazzina e in casi consimili (anche
di un mio scritto su un ragazzo troppo presto scomparso è stata scritta una
frase così), il testo – al di là del valore letterario – “fa tremare il cuore”?
Forse perché il dolore è l’unico
sentimento davvero universale degli uomini. C’è chi non ha avuto né avrà una
gioia; chi conosce amore ed amori e chi ne è privo; chi viaggia e chi non lo
fa; ma tutti sappiamo (anche se, magari, proviamo in diversi modi a
dimenticare) che malattia, dolore e morte sono sempre, in ogni momento,
potenzialmente sulla nostra testa e, cosa ancora peggiore, possono colpire le persone
noi più care.
Il dolore degli altri
rimanda al dolore che ognuno ha vissuto o teme (che ci pensi chiaramente o no)
di poter vivere un giorno o l’altro.
Ma, ancora di più, vale un
altro sentimento. Chi racconta un dolore assoluto, per quanto sia e appaia ferito,
atterrato, distrutto, dimostra, celebrando la vita del morto/a, che le ragioni
della vita sono più forti di quelli della morte: che la vita, anche frantumata,
chiama vita.
E il fatto di vivere anche
con le ali spezzate è un elemento che commuove. Dà un brivido a chi le ali ce l’ha
ancora. Gli fa avvertire, nelle fibre del corpo e dell’anima, per quanto magari
inconsapevolmente e solo qualche istante, che la propria vita, per quanto
banale e anonima, è una ricchezza incommensurabile.
Non può, l’eventuale
lettore, che esserne grato (anche se, di nuovo, non necessariamente in maniera
consapevole) a chi glielo ricorda.
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