Autunno
Melograni che s’aprono come
labbra ridenti - intrecci
di uva bianca e nera - cotogne
dorate - lucide castagne ,
i primi loti, le sorbe già mature.
Toni pacati dovrebbe avere
l’autunno e colori aranciati
e dolcezza di lacrime quiete.
Per abbandonarsi al tepore
della casa in pomeriggi
umidi - sorseggiando morbide
parole silenziose, distillando
da ogni grano falciato la pacata
malinconia delle rinascite.
E fluidamente scivolare
nella propria
intimità, tratteggiando
nuove mappe, fiumi e monti, città e
mari di geografia interiore.
Ma, in questa arsura innaturale
(quasi preludio di nuova povertà) -
per chi nel tempo ti precede e chi
ti segue devi (re)stare.
Semplicemente. Come pietra
infuocata di vulcano.
Il racconto che segue è stato pubblicato su Zoomsud con il titolo Il melograno di Silvia http://www.zoomsud.it/commenti/40126-racconto-dautunno-il-melograno-di-silvia.html
Bollita non le piaceva, s’ammollava troppo. Meglio indorare al forno i cubetti con olio, aglio e prezzemolo, prima di qualche giro di frullatore. Silvia rimise il passato sul fuoco con tanti minuscoli pezzettini di emmenthal a fondere piano per poi riempirne la zucca precedentemente svuotata. Saltò in padella dei funghi, li sfumò con il vino bianco, li fece asciugare appena e ne versò una cucchiaiata abbondante nel purè di patate che stava già disposto in piccole ciotole da gratinare. Spense il fuoco sotto il padellino in cui aveva stemperato qualche filetto di alice nell’olio fumante di aglio e peperoncino con cui ricoprire i broccoli appena cotti. Si lavò le mani, fece aerare la cucina e preparò la crema di panna e mascarpone per farcire i voluttuosi kaki che, appena lavati, tremolavano nella loro incerta consistenza gelatinosa.
A sessanta anni passati, Silvia non avrebbe mai indossato un vestito arancione e neppure uno marrone o rossiccio – tutto il suo guardaroba era fatto di variazioni di blu e di grigio. Ma le piaceva cucinare secondo i colori delle stagioni e, d’autunno, arrostire castagne e friggere ciambelline di patate dolci, addolcire la verza con un generoso pugno di uva passa e impreziosire un semplice arrosto al limone con una zuccherata purea di cotogne.
Ragazza, non aveva mai preparato neppure un uovo fritto. A cucinare aveva imparato da sposata, quando – trasferitasi per alcuni anni col marito in una città del Nord – aveva cominciato a ripetere con una certa naturalezza quello che sempre aveva visto fare dalla madre e ad affinare particolari, studiando manuali su che fare di pasta, riso, verdure, carni. Per mesi, quasi ogni fine settimana, aveva organizzato cene per nuovi conoscenti: cercavano amici, con cui dare aria alla solitudine. Ogni cena le costava tre giorni di fatica, uno per fare la spesa e anticipare alcuni piatti, uno per cucinare e organizzare la tavola e l’ultimo per ripulire la casa, lavare e stirare la tovaglia, rimettere a posto le stoviglie. Preparava veri banchetti, con decine di portate, combinando piatti della tradizione ed esperimenti stuzzicanti e si andava avanti a lungo la notte. Lei non toccava quasi niente: un’allergia agli alimenti segnalava un disagio più ampio, di cui nessuno teneva conto.
Quando le fu chiaro che la loro tavola s’affollava solo per la bontà del cibo – con le primizie dell’orto che la famiglia le inviava dallo Ionio calabrese – quell’abitudine svanì, insieme alle facce e anche ai nomi dei commensali. Ma le rimase la scuola, accelerata ed esigente, di buona cuoca.
Da quando erano tornati a vivere al paese, s’era limitata a poche cene l’anno con vecchie coppie di amici. Con alcune si conoscevano tanto che avrebbe potuto trascrivere il giorno prima l’andamento della conversazione, con altre avevano in fondo poco da dirsi e, dopo l’iniziale piacere di vedersi e raccontarsi le ultime novità, era uno sforzo attivare una conversazione non banale. E anche quelle cene vennero diradate sempre più. S’infastidiva perché preparava sempre troppe cose e in troppa quantità, come se l’abbondanza del cibo tenesse lontana la fame degli avi ed evocasse quella famiglia più numerosa che una parte di sé continuava a rimpiangere.
Sebbene anche la tavola priva di ospiti le accrescesse un certo senso di vuoto, anche una cena con più persone le lasciava, comunque andasse, una sorta di svogliatezza dell’anima. Oltre piccole dosi, le persone la stancavano. Più stava nascosta, tenendosi stretti i tre, quattro pensieri sensati che riusciva a produrre in un giorno, meno peggio si sentiva.
Ma in un momento leggero – le prendevano certe ore in cui per un niente, una parola gentile, una telefonata, un’attesa angosciosa sciolta in un arrivo felice – aveva invitato quattro amiche recenti con cui s’era trovata a condividere una piccola attività di volontariato. Le chiamava amiche perché nessun altro termine le pareva convenevole, ma sapendo che neppure quello rispondeva alla realtà. C’erano piccoli muri in lei che la separavano dagli altri, che la lasciavano in una solitudine a volte cercata, a volte accettata, talora dolente. Era un fico d’india che, quando le si avvicinavano, poteva smorzare gli aculei o renderli più rigidi: baffi taglienti di un gatto con le orecchie tese, pronto alla difesa. Comunque, le aveva invitate per una sera in cui marito e figli non ci sarebbero stati. E aveva poi resistito ad ogni tentazione di fingere un impedimento, di declinare con una scusa garbata quell’impegno.
E, ora, Silvia stava cucinando, senza ansia, dandosi il tempo necessario. Avrebbe messo una tovaglia che aveva ricamato per mesi e che aveva lasciato sempre nel cassetto: tutti frutti a punto a croce, un’esplosione di colori eccessiva e festosa. E avrebbe infine sgranato un grosso melograno e raccolto i chicchi in una ciotola di cristallo al centro del tavolo. Dessert inusuale e gradevole, che le sue ospiti avrebbero assaggiato con gusto e curiosità. A lei sarebbe bastato lasciarsi colmare da tutte le scie di simboli che quel frutto avrebbe sprigionato nell’aria.
Le foto sono di Caterina Niutta
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