mercoledì 4 maggio 2022

Microstorie: Senza grano

 

Immagine dalla pagina Fb del Panificio Malara

«Tutto posso raccontare, solamente che nel racconto sono parole, mentre lì era vita, sofferenze, morte per fame. Tra l’altro, al momento di requisire il grano spiegavano agli attivisti che avrebbero nutrito la gente con le riserve. Era una menzogna, neanche un granello diedero, agli affamati.

Chi requisiva il grano? Per lo più i nostri, quelli del comitato esecutivo di distretto o del partito, be’, il komsomol, i nostri ragazzi, i giovanotti, e naturalmente la polizia, l’Enkavedé, da qualche parte persino i militari, io ne vidi uno di Mosca, un richiamato, lui però non è che si sforzasse gran che, cercava sempre di tagliare la corda. E di nuovo, come durante la repressione dei kulaki, la gente sembrava fosse uscita di senno, delle belve diventarono.»

 

Consolata spense il kindle. Aveva ripreso Tutto scorre, dopo aver letto, nella rassegna stampa, alcuni articoli sulla crisi alimentare che la guerra in Ucraina portava con sé, ma il cuore non reggeva.

 

I suoi nonni erano stati contadini e, della sua infanzia, ricordava con vividezza il grano alto d’estate, tutto quell’oro sotto il cielo azzurro – che evocativa la bandiera ucraina! – il grano appena nato, vasi di fili verdi e gialli all’altare che allora si chiamava “dei sepolcri” il giovedì santo, e il pane bollente, irrorato d’olio appena uscito dal forno.

 

Lei aveva vissuto, invece, di cultura: non nel senso di semine e raccolte, ma in quello di studio, libri, ore e ore a cercare la parola giusta, la frase più adatta. Contadina della mente, prima di morire, sarebbe stato bello ritrovare la zappa accanto ai libri.

 

Aveva, per poco tempo, coltivato un sogno. Il panettiere del suo paese stava cercando di mettere in piedi una rete di coltivatori, panificatori e commercianti per far coltivare e utilizzare gli antichi grani locali. Al progetto avevano aderito, in alcuni paesi vicini, giovani coltivatori disponibili a seminare e a mietere anche terre altrui. Consolata aveva un piccolo pezzo di terra, che era stato seccagno, mandorleto e giardino di bergamotti prima di sopravvivere, come poteva, a se stesso. Ci sperò.

 

Arrivarono due ragazzi su una gip. Amici d’infanzia, s’erano laureati tutte e due in Agraria, avevano riconvertito a grano le proprietà di famiglia, scelta cui si erano legati una decina di coltivatori. Sembravano pieni d’entusiasmo, ma coi piedi per terra.

 

Camminarono per le lenze, continuando a parlottare tra loro. Consolata non diceva nulla, avrebbe accettato le loro condizioni. Non era interessata ad un profitto: il grano le avrebbe dato pace al cuore, avrebbe nutrito la sua anima solo col suo crescere. I ragazzi dissero che ci volevano pianori ampi, su cui poter procedere con le macchine da semina e da mietitura: quel suo terreno non era adatto a coltivare il grano.

 

Consolata riaccese il kindle. Riprese a leggere Vasilij Grossmann:

«E, quel che è peggio, niente grano. Nelle campagne lo avevano requisito fino all’ultimo chicco. Non c’era di che seminare il grano primaverile, avevano sequestrato fino all’ultimo granello di riserva, per la seminagione.»

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