giovedì 26 maggio 2022

Donne, maternità e lavoro, quaranta anni dopo

 

Le immagini sono tratte dalla Voce della Campania,
 annate 1978-79

“Maternità e fabbrica” era il titolo di un seminario che si svolse a Napoli dal febbraio al giugno 1978: il primo, sull’argomento, nella città partenopea, mentre a Torino ne erano in atto una quarantina. Organizzato, con la collaborazione del Dipartimento di Medicina del Lavoro del Primo Policlinico, dal Coordinamento donne della FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), vi parteciparono 80 tra operaie e impiegate: 30 dell’Alfasud, 27 della Selenia, 7 dell’Ignis, 5 della Mecfond, le altre dell’Olivetti, della Fiat, della Gela, dell’Italsider, dell’Aeritalia. Si riunivano due volte la settimana in salette maleodoranti dell’ospedale, ascoltavano le “lezioni” sull’apparato genitale femminile, sulla fisiologia e patologia della maternità, sulla contraccezione e l’aborto, in riferimento in particolare agli “aborti bianchi” tenute dalla ginecologa Maria Pia Buccico (oggi più conosciuta come Maria Pia Marroni, ndr) e, suddivise in quattro gruppi, si confrontavano sulle loro esperienze. Ne scrissi sulla Voce della Campania del 30 aprile 78, in un articolo intitolato Se il ginecologo è donna, che riprende il dibattito avvenuto in due di questi incontri. Uno sulla contraccezione (usata, soprattutto, la spirale, pochissimo la pillola: e, comunque, con grossi fastidi per tutte) e l’altro che partì dal concetto di istinto alla maternità (affermato da alcune e negato da altre) e dai sacrifici per far crescere un figlio (che alcune ritenevano eccessivi e, per altre, erano ripagate proprio dall’essere madri: “Non voglio sacrificarmi più di quanto faccio già”, “Ma che cosa ho perso? Forse non vado a cinema, ma non ci andavo già”) per soffermarsi poi sulla scarsissima conoscenza del proprio corpo (“A me non è mai capitato di guardarmi”) e la vergogna di andare dal ginecologo (“Il solo pensare di mettermi sul lettino e in quella particolare posizione mi fa sentire male”). Quasi nessuna si era mai fatta seguire da una ginecologa: un po’ perché “ce ne sono così poche”, ma, soprattutto, perché “non ci avevo mai pensato”. 

 


Non ero, né sono poi diventata, una grande conoscitrice di problematiche industriali, ma l’aver seguito quel seminario mi portò ad approfondire l’argomento con una piccola inchiesta sulle condizioni delle lavoratrici nelle fabbriche di Napoli e dintorni. Sulla Voce, dal maggio al luglio 1978, uscirono una serie di articoli sui miei incontri con le lavoratrici della Selenia, dell’Alfasud, della Longano, della Valentino, della Cirio. Incontri avvenuti, quasi tutti, all’orario di mensa (non tutte le fabbriche avevano una mensa; alla Valentino si mangiava sugli stessi tavoli con le colle e i solventi; alla Longano le operaie si portavano il cibo da casa, o andavano a comprare un panino lì vicino): un momento di socializzazione che corrispondeva anche al quotidiano scambio di confidenze tra lavoratrici. Al di là delle specifiche condizioni di lavoro nelle singole fabbriche – dall’umidità che portava non pochi problemi di salute alla Cirio ai controlli clinici che si sarebbero dovuti, ma non si facevano, ogni tre anni alla Valentino – emersero tre costanti. Che si chiamassero Maria, Anna o Giuseppina, fossero operaie o impiegate, in tantissime sentivano il peso del doppio lavoro, casa-fabbrica, con l’orario di lavoro dilatato dalla carenza e/o lentezza dei trasporti e, soprattutto, la difficoltà a gestire i figli piccoli. Chi aveva bambini, raccontava di alzate antelucane per accompagnarli dai nonni o, addirittura, di trasferimento dei piccoli dai nonni; chi non ne aveva motivava la scelta con l’impossibilità di far convivere lavoro e maternità. La seconda era che il lavoro veniva avvertito da alcune come una realizzazione o, almeno, come un’esperienza umanamente arricchente, ma, molto di più, e dalla netta maggioranza, come una necessità: più di una dichiarava che ne avrebbe fatto volentieri a meno, se il marito avesse guadagnato sufficientemente. Solo lì dove si arrivava ad un prodotto finito visibile – come nel caso delle scarpe o delle borse di Valentino – il senso di soddisfazione per il proprio lavoro, per quanto faticoso, diventava palpabile. In terzo luogo, emergeva la bassa presenza di donne nei CdF. Alla Selenia, che aveva 800 donne su 3000 addetti, c’erano 5 donne su 55 nel Consiglio di Fabbrica; 3 su 204 all’Alfasud, che pure col suo combattivo “collettivo femminile” presentava la più alta “politicizzazione” femminile. Quasi tutte dichiaravano di non avere né tempo né voglia di sobbarcarsi un ulteriore compito oltre quelli, inevitabili, del doppio lavoro casa-fabbrica: “Non abbiamo, dietro di noi, esperienze di lotta di altre donne: uscire dal guscio, quindi, è difficile e ci vorrà del tempo”, commentava Modestina Cuccurese, una delle poche donne nel CdF della Selenia e continuava: “A volte non parlo perché ho paura di dire fesserie. Poi parla mio marito, anche lui nel CdF e mi accorgo che dice le stesse cose che volevo dire io… e sono accettate da tutti”.

 


Angela Francese, che da operaia era entrata, unica donna, nella segreteria della CGIL napoletana, commentò così, in un’intervista che fa parte integrante della mia piccola inchiesta, quanto affermato dalle tante donne che avevo ascoltato: “Degli articoli apparsi sulla Voce mi ha impressionato soprattutto un fatto che conosco bene, ma ogni volta mi stupisce: anche nelle donne che vivono in fabbrica, nella maggior parte dei casi, manca un’analisi politica. Dai loro discorsi, cioè, vengono fuori i problemi del quotidiano (che io non chiamo mai personali, ma, appunto, quotidiani, il che è molto importante perché indica una presa di coscienza della realtà sociale, ma permane l’incapacità di individuare la controparte, di collegare questi problemi alla situazione politica complessiva”. Aggiungendo subito dopo: “Il limite che si esprime nei discorsi delle donne è anche il punto da cui bisogna partire: perché la loro sensibilità diciamo sociale è più forte di quella degli uomini, spesso limitati a discorsi generali e astratti”.

 


L’inchiesta – che si soffermò anche sul dibattito allora molto acceso sul part-time (avrebbe accresciuto l’occupazione femminile o avrebbe ulteriormente confinato le donne in una posizione subalterna?: dibattito in cui intervenne anche un uomo di eccezione, Percy Allum, storico e politologo da poco scomparso) – si rivolse poi, fino al gennaio 1979 ad altre forme di lavoro femminile: le commesse, le collaboratrici domestiche, e le donne che lavoravano, a domicilio, per le industrie. Le commesse rappresentavano il 62% degli impiegati della Rinascente, il 75% della Coin, l’80% dell’Upim, l’81% della Standa, con un massiccio ricorso al part-time per l’impossibilità di conciliare l’orario di lavoro con l’impegno casalingo: il 36% alla Rinascente, il 42% all’Upim, il 45% alla Standa, il 50% alla Coin. Il lavoro domestico, considerato ormai umiliante dalle italiane, cominciava ad essere affidato a straniere. Il solo circolo Acli del Vomero ne aveva piazzate, nel 78, 419. In tutto, ne erano state impiegate a Napoli, con regolare contratto, 630 nel 1977 e 731 nel 78 fino a novembre, provenienti in gran parte da Capo Verde, Sri Lanka, Filippine ed Eritrea. Molto apprezzata una lettera di accompagnamento del parroco.

 


Se tutta l’inchiesta fu per me una scoperta – scrivevo con lo spirito di chi provava a riportare semplicemente quello che vedeva e sentiva– l’emozione che mi diedero le ore passate a Mariglianella fu particolarmente intensa. Scrissi: “Delle centinaia di lenzuola che i magazzini di piazza Mercato a Napoli – STEM, soprattutto – vendono ogni mese, almeno 300 provengono da Mariglianella, un piccolo comune a 30 km circa dal capoluogo. Qui l’80% delle donne dai 15 ai 45 anni (ma si arriva ai 60 ‘quando ancora si vede’) fanno ‘lavoro a casa’. Cioè: confezionano i fiorellini per le bomboniere (1 lira l’uno; ne devono fare 500 per guadagnare cinquecento lire al giorno, ‘ma per una ragazza che non trova nient’altro da fare, sono sempre qualcosa’); rifiniscono i pantaloni prodotti da una piccola fabbrica di Lausdomini (1 lira a bottone; 5 lire per la sfilatura; 5 lire per un passante: in tutto 50 lire per un pantalone, sempre che sia la stessa donna e non diverse a compiere le operazioni indicate) e, soprattutto, ricamano lenzuola. Lenzuola che nei negozi di piazza Mercato si vendono intorno a 37/40 mila lire se di misto lino e alle 45 se di lino e in quelli di via Chiaia o del Vomero raggiungono cifre che si aggirano sulle 150/200 mila lire e che a loro vengono pagate 3 o 5 mila lire a seconda del disegno”. Dieci ore di lavoro per 53 lire al giorno. Un rapporto tra commercianti e “ragazze” filtrato dalle ‘signore’, le intermediarie, sposate con un marito che guadagna perché dovevano dare una caparra, “che prendono la stoffa dai grossisti, tagliano e disegnano le lenzuola e, dopo averle fatte ricamare e, da altre ragazze, lavare e stirare (per 400 lire l’uno), le inscatolano e le riportano ai venditori”.

 


Più di quaranta anni dopo, come e quanto sono cambiate le donne? Quanto è cambiato il loro rapporto con il lavoro e con la maternità? La società, nel suo complesso, che tipo di evoluzione ha avuto su queste tematiche? Lascio queste domande – ma ce ne sono tante altre possibili – aperte. Con una notazione a margine. Napoli può avere molte mancanze, ma da tanti anni ormai abbonda di scrittori/trici. Strano che nessuno/a abbia pensato (almeno per quanto ne so) a dedicare un romanzo alle “ragazze di Mariglianella”.

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