domenica 2 maggio 2021

Trevi, Romano, Comandé: tre recensioni

 


«Saranno davvero esistite due persone come Rocco e Pia? E di chi possiamo dire con certezza che ha avuto una vita felice, o infelice? Non è forse, di ogni emozione che accade davvero in noi, di ogni parola davvero importante, vero anche il contrario?»

Se non c’è alcun dubbio che siano davvero esistiti Rocco Carbone e Pia Pera, è certo che, qualunque sia stata l’emozione dominante la loro vita, entrambi resteranno felici per sempre grazie a Due vite, il libro di Emanuele Trevi, edito da Neri Pozza, in lizza per lo Strega 2021, che ne ripercorre le forti, originali e contrapposte personalità.

«Intensa, dotata di un’anima prensile e sensibile, incline all’illusione, facile a risentirsi», Pia Pera, donna «timida» e «sfrontata», traduttrice finissima di grandi autori russi, capace, nella malattia, di mettere in atto eccezionali «processi di semplificazione e di pulizia interiore», rivelando «enormi riserve di saggezza e forza d’animo».

Nato a Reggio Calabria e cresciuto a Cosoleto, la madre maestra e il padre sindaco del paesino calabro, morto prematuramente in un incidente stradale, Rocco Carbone «era una di quelle persone destinate ad assomigliare, sempre di più con l’andare del tempo, al proprio nome. Fenomeno inspiegabile, ma non così raro. Rocco Carbone suona, in effetti, come una perizia geologica. E molti lati del suo carattere per niente facile suggerivano un’ostinazione, una rigidità da regno minerale. A patto di ricordare, con i vecchi alchimisti, che non esiste in natura nulla di più psichico delle pietre e dei metalli.»

Dice Emanuele Trevi che «scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginato alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre. Far divampare un fuoco psicologico da qualche fraschetta umida raccattata qua e là.»

Nelle pagine di Due vite, le “persone” Rocco Carbone e Pia Pera divengono – grazie al filtro di una scrittura limpida, misurata, empatica senza smancerie – “personaggi” di grande pregnanza e di plastica evidenza e, nello stesso tempo, i due “personaggi”, stilisticamente “autentici”, appaiono “persone” nella complessa sfaccettatura del loro essere, l’una Pia e l’altro Rocco.

«Parlare della vita di Rocco significa necessariamente parlare della sua infelicità, e ammettere che faceva parte della schiera predestinata dei nati sotto Saturno. Ma come definire ciò di cui soffriva Rocco? Volendo far coincidere esattamente un nome alla cosa, alla fine bisognerebbe coniare un nuovo termine, tipo “rocchite”, “rocchíasi”». Studioso dei meccanismi della narrativa, Rocco Carbone avrebbe avuto una facile carriera universitaria (negli ultimi anni, fu insegnante nella sezione femminile del carcere di Rebibbia), ma volle votarsi alla letteratura con l’assolutezza dell’«asceta».

«A partire dal primo libro, e per i quindici anni successivi, fino al giorno della morte, Rocco ha praticato meticolosamente, ostinatamente una specie di penitenza che consisteva nella scrittura di romanzi. Come se scavasse una galleria in una montagna di dolore, di sconforto. Ma con l’idea implicita che, una volta sbucato dall’altra parte, avrebbe trovato le stesse identiche cose che c’erano al punto di partenza.»

Una narrativa alta, lontana dalle mode e dagli interessi commerciali, in cui la strutturale difficoltà di vivere diventava l’implicita affermazione che – parole di Chiara Gamberale – «è proprio quella cosa che di te pensi non vada, quella che più funziona».

Romanzo breve sull’amicizia profonda, sullo scambio che produce un’unità particolare tra persone diverse; racconto lungo che realizza la convinzione di fondo – «L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità.», Due vite ha anche il merito di far conoscere ad un pubblico più vasto due autori che meritano di essere letti.

Non rientrati nella dozzina dello Strega Il popolo di mezzo di Mimmo Gangemi e Lettere alla moglie di Hagenbach di Giuseppe Aloe, la Calabria trova un posto importante nel più importante premio letterario italiano con il libro di Trevi, già autore de Il popolo di legno, di ambientazione calabrese.

 

Recensione pubblicata su Zoomsud:

http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108010-le-recensioni-di-maria-franco-emanuele-trevi-due-vite-di-emanuele-trevi-neri-pozza

 

Su Zoomsud sono state pubblicate anche le seguenti recensioni:

http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108019-maria-franco-cinema

 


Ha, forse, due limiti L’incontro, ultimo film di Salvatore Romano, regista nato a Taurianova, noto al grande pubblico in quanto ha diretto oltre cento puntate di Un posto al sole e che già alla Calabria aveva dedicato un film nel 2007, Liberarsi, centrato sui Moti reggini della rivolta del Boia chi molla.

Si tratta, infatti, di un’opera dalla forte impronta didascalica e recitato, bene (ottima la prova del protagonista, Giuseppe Marvaso), ma in una lingua italiana che sarebbe stata più intonata se meno “pulita”.

A fronte di questi limiti, il film di Salvatore Romano – girato a Mormanno e nelle zone del Pollino – ha il grandissimo merito di affrontare, con sobria intensità, il tema del dopo carcere: la difficoltà estrema di chi, pur avendo “pagato il debito” con la società, viene respinto ai margini e, magari, oltre i margini del burrone esistenziale. E di farlo – cosa estremamente inconsueta nell’attuale clima culturale – ponendo il messaggio cristiano del perdono, quello da chiedere e quello da ricevere, a partire da se stessi, come l’unica possibile via d’uscita dagli insopportabili pesi del passato, dalle ferite laceranti che rendono insostenibili le relazioni e i giorni.

È un film che si svolge per strada, in un viaggio lungo le strade di una Calabria di austera, struggente bellezza, su un camioncino che porta un grande Crocefisso (un richiamo, forse, ad alcune inquadrature di Corpo celeste di Alice Rohrwacher ambientato nel reggino), che è un cammino periglioso, un doloroso pellegrinaggio fatto di scalate e di inabissamenti dentro la propria anima.

Attraversare la sofferta fatica di accettarsi con tutti i propri errori e i propri fallimenti apre alla possibilità che, anche negli altri, avvenga il miracolo di un “addolcimento” del cuore e, tra poveri disgraziati – una volta si diceva poveri Cristi – possa accendersi un sorriso di fiducia e di speranza.

 

 http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/108018-maria-franco-padrina

 


Al suo terzo libro, Palma Comandè, nipote di Saverio Strati firma, per Rubettino, un romanzo ambientato in una Calabria selvaggia, antiquata più che antica (la vicende si snoda a partire dagli anni ottanta del Novecento) e, nello stesso tempo, adusa a moderni traffici di malaffare, con basi in Lombardia e negli Stati Uniti.

Sono due le donne protagoniste di La padrina. Donna Menù, la nonna che guida l’intera famiglia, quella diretta di figli e nipoti, e quella allargata, di rami collaterali, con piglio dittatoriale: che non esita a mettere un fucile in mano ad un figlio quindicenne per vendicarsi di chi le aveva ucciso il padre né a distruggere una figlia colpevole di essersi innamorata di uno “sbirro”. Una donna dominata da una sete di vendetta combinata con la volontà di un potere costruito passo passo mettendosi in affari con altri capi ‘ndrangheta locali; capace di intessere e rafforzare i legami con i parenti e gli “amici” americani per raggiungere i suoi fini; dotata, più d’ogni altro, di una visione strategica sugli obiettivi da raggiungere. Una donna rispettata, temuta e venerata dall’intera comunità, quasi fosse una santa, superiore a tutti per qualità morali. L’altra protagonista – che racconta tutta la vicenda in prima persona – è la nipote, Mirià. Prima ragazzina che sogna, insieme ad un’amica, un mondo diverso: studiare, diventare medico; e, costretta a non continuare la scuola, poter fare la stilista di abiti da sposa. In seguito, ragazza che si adegua alla scelta della nonna per lei di un matrimonio americano. Poi adulta che cerca la sua strada. Un percorso che la porta sempre più dentro i meandri del malaffare in cui la sua famiglia è invischiata: un mondo che non condivide razionalmente, ma cui è legata emozionalmente. Finché un evento drammatico la costringe a scegliere. E la sua scelta, sebbene opposta a quelle della nonna, che la rifiuta con sprezzo, finisce col modificare anche altri della famiglia e, forse, nel momento della morte, la stessa nonna.

Nel racconto, emergono anche altre figure femminili: la coraggiosa, libera Mara Rosa; l’amica Lisa, vittima innocente di un sogno di vita diversa; la madre e la suocera di Mirià, entrambe bloccate nel loro ruolo di custodi di interessi familiari.

Non del tutto riuscito né per stile né per sviluppo della trama, La padrina potrebbe, però, fare da apripista ad una nuova stagione di testi sulla ‘ndrangheta incentrati su figure femminili.

 

 

 

 

 

 

 

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