martedì 22 settembre 2020

Dopo il voto

 


Il 23 novembre 1980 ero al San Carlo. La dolcezza della musica – c’era Uto Ughi sul palco – fu travolta in un istante dalla violenza d’una scossa che sommuoveva il pavimento e faceva girare vertiginosamente i lampadari. La notte sembrò l’ultima che avremmo vissuto. Come poteva, in quel marasma, risorgere l’alba? Eppure, l’alba riapparve. E, nonostante scendesse una pioggia sottile da un cielo grigio e l’aria fosse come impregnata di caligine, le ore ricominciarono a scorrere nella sua quotidiana normalità. Fu, per me, una lezione indimenticabile: che la vita continua, sempre, anche se, magari, non per se stessi.

Alle elezioni di ieri, ci sono stati un po’ di sommovimenti (il termine terremoto lo lascerei agli eventi tellurici, come il termine cancro alla malattia: gli usi metaforici, per quanto centrati, hanno in sé troppo spesso una qualche, anche se involontaria, mancanza di rispetto). Alcuni lampanti. Altri che si coglieranno nei prossimi mesi. 

Prenderne atto è intelligente. Con la nota che, se si vince, non necessariamente si è dalla parte giusta e che se si perde si può essere da quella migliore della storia.

Ma che, appunto, stamattina – che piova o ci sia chiaro – il sole è lì. E che, tornare al “travaglio usato”, è la disciplina del nostro essere nel mondo.

 

 

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