«Da piccolo, quando ero a
casa mia e pioveva sopra le lamiere, chiudevo gli occhi e mi sembrava di
sentire gli applausi. E invece adesso li riapro e quegli applausi siete voi.» Così, nel maggio 2018, dal palco del Festival di
Cannes, Marcello Fonte ringrazia per la Palma d’oro ricevuta come miglior
attore protagonista per il film di Matteo Garrone Dogman. Mai un attore aveva espresso la sua emozione nel ricevere
quell’importantissimo riconoscimento con parole così evocative: la poesia della marginalità superata.
«Una telecamera puntata in faccia mi
si incolla davanti a rubarmi i pensieri, ma nessuno in questa sala può
immaginare cosa ho in testa: mia madre con i piedi affondati nella terra, mia
nonna che mi abbraccia nel letto mentre fuori diluvia, mio padre che mi sorride
fiero alla processione del Rosario e mi incoraggia e le voci chiassose dei miei
fratelli, e quella pacata di Antonio il giorno che mi disse al telefono: “Vieni
a Roma qualche giorno?” e non me ne sono più andato.»
In Notti stellate, edito da Einaudi, Marcello Fonte racconta ora la
prima parte del cammino che l’ha portato a Cannes (punto di arrivo di un
percorso e, certo, di ri-partenza per altri successi): «Mamma mi voleva
chiamare Maurizio, ma a papà questo nome suonava male. Gli venne in mente
allora un amico di mio fratello Antonio, un ragazzetto buono, educato, che si
chiamava Marcello. Sperava che se mi metteva il suo nome uscivo come lui.
Invece no: focu fu.»
Sua madre Rosa e suo padre Peppino
hanno fatto, abusivamente, di un pezzo di fiumara, nel rione Marrani, a Reggio
Calabria, il loro giardino-casa: «Piano piano quel pezzo di terra che ci
eravamo recintati alla fiumara diventò un accampamento, un labirinto. Il
recinto era fatto di brande, lamiere, pali, reti, sportelli, porte e tutto
quello che è buono per chiudere. (…) Ogni angolo non utilizzato per coltivare
era buono per fare una baracca, secondo mia madre, oppure andava ammassato di
roba. (…) Con l’aiuto dei figli tirò su una fila di baracche: c’erano la
cucina, il caminetto per riscaldarci, la stanza da letto per fermarci a dormire
se la fiumara era in piena e non riuscivamo a tornare a casa, la baracca degli
attrezzi, il gallinaio, la veranda dove si mangiava tutti insieme e sulla
parete la Madonna della Montagna, che non mancava mai. A me sembrava un albergo
di lusso.»
Di contro alla casa “vecchia”,
piccola, e buia, con il bagno costituito da «un lavandino che manco funzionava,
la tazza e un secchio che serviva per buttare l’acqua, perché lo sciacquone non
c’era», quello spazio nella fiumara gli appare come «un luogo magico. (…) Al
giardino potevo sfuggire a mia madre sfruttando passaggi segreti, vedere le
gatte partorire dal vivo e, la sera, dall’albero di fico di mio padre, ammirare
le stelle.»
La vicina discarica è il regno dove Marcello
sfoga la sua rabbia contro la madre che gli impedisce di avere un cane e non
intende comprargli una bicicletta, inventa storie immaginandosi personaggio di
un film, scopre i giornaletti pornografici che diventeranno l’accompagnamento
di un’infinita serie di “pugnette”, raccoglie «più che altro roba elettrica a
perdere: tostapane, fon, radio che funzionavano pure. I televisori li rompevo a
pietrate, era più gustoso che portarmeli dietro. Il resto lo trascinavo nella
mia officinetta al giardino e lo smontavo. Prendevo quei pezzi di bici e li
studiavo bullone per bullone.»
Bocciato in prima elementare, per un
pelo evita la seconda bocciatura da ripetente. Con Carmelino e Carmelazzo, Lele
e Mitri «eravamo come i cinque dell’Ave Maria: sempre insieme, sempre uniti.
Nella combriccola io ero quello che mi buttavo avanti quando c’era qualcosa da
rischiare.» La sua vita di «bambino mundizzaro», che mantiene, in una realtà
non solo materialmente degradata, uno stupito candore, accumula fatti (dai
gesti vandalici a scuola ai furti ai soldi delle offerte della messa fregati)
che possono farla scivolare in quella di un ragazzo
di vita.
Finché un amico gli racconta che il
fidanzato della cugina «sta cogliendo i figlioli che vogliono imparare la musica»:
«- Quindi posso venire anch’io, - dissi per essere sicuro. Ancora non avevo
capito bene di che cosa si trattava, però volevo andare dove andava lui.» Anche
perché «mi spiegò che, quando imparavi a suonare, entravi nella banda e giravi
i paesi chiamato dalle commissioni, e ti pagavano. Io non ci credevo che si
potevano guadagnare soldi con la musica, ero troppo eccitato.»
Non sarà facile superare le
difficoltà, a cominciare dal no della madre all’acquisto d’uno strumento, ma è
la scelta che incanala la forza, la creatività, la rabbia di Marcello nella
determinazione assoluta di farcela.
«È passato un sacco di tempo da
quella prima uscita con la banda, quasi trent’anni, e da allora far stare bene
la gente è diventata una missione per me, prima a Marrani, poi a Roma. Ovunque
mi sono imbucato ho sempre cercato di portare un poco di scompiglio, di
allegria, di imprevisto. Questa volta però mi sa che l’ho fatta grossa. Sono a
Cannes.»
Libro sincero, tenero ed ironico, Notti stellate lascia al lettore l’immagine
forte di un piccolo eroe marginale: esploratore
della fiumara, in rotta con (quasi) tutti, a rischio di una vita violenta, Marcello
‘u surici trasforma l’avventura di crescere ai margini da possibile stagione in
inferno in poesia, dolce anche quando feroce.
L’infanzia, con il suo carico di
povertà e di devianza, è anche la meraviglia di chi neppure sapeva di poter
sognare un riscatto eppure s’illuminava di notti stellate e, quando pioveva, «mentre
le gocce scrosciavano sulle lamiere sentivo come battere le mani, centinaia di
persone, mi sembrava un lungo applauso.»
Conservarla, questa meraviglia, è il
dono dei santi e dei poeti. E anche dei grandi attori.
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