Le donne della mia
infanzia vivevano all’ombra di Maria.
C’era sempre un rosario
in tasca, una novena, un altarino da rallegrare con i centrini più belli e i
fiori più profumati. Il suo nome tornava più volte durante il giorno, invocato in
ogni circostanza, lieta o triste: mamma, sorella maggiore, zia grande cui
raccontare anche quello che non si diceva a se stesse.
Questa passione per la
Madonna me la rendeva, se non estranea, lontana. Come se la devozione nei suoi
confronti fosse la conferma di un ruolo delle donne come madri e, in
particolare, come madri dolorose.
Grazia
prena, dicevano le vecchiette in chiesa, stropicciando il
latino e con un effetto straniante: giacché prena
era, nel dialetto locale, la mucca incinta.
Qualcosa che contrastava
con l’esperienza che noi stavamo costruendo giorno dopo giorno. La mia,
infatti, era la prima generazione di ragazze che studiava (non tutte; alcune
mie compagne, dopo la media, erano state ritirate
a casa dalle famiglie) e, per questo, vedeva (o, perlomeno, molte di noi
vedevano) il proprio futuro come donne
(persone) prima che come madri.
(Poi, la mia generazione,
ha conosciuto travolgimenti forti, tuttora in atto, fino alla negazione della maternità come
affermazione dell'individualità femminile).
Solo crescendo, di questa
donna dai mille e mille titoli, pregata, cantata, dipinta più d’ogni altra
creatura, ho iniziato a intravvedere qualche sfumatura che dà carne alle
statue, una bellezza che non è solo quella ritratta dai grandissimi del nostro
Medioevo e Rinascimento.
E solo con l’avanzare
della maturità, ho iniziato a sperimentare il rosario come preghiera possibile.
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