martedì 7 novembre 2017

Io e Lei







Le donne della mia infanzia vivevano all’ombra di Maria. 

C’era sempre un rosario in tasca, una novena, un altarino da rallegrare con i centrini più belli e i fiori più profumati. Il suo nome tornava più volte durante il giorno, invocato in ogni circostanza, lieta o triste: mamma, sorella maggiore, zia grande cui raccontare anche quello che non si diceva a se stesse.

Questa passione per la Madonna me la rendeva, se non estranea, lontana. Come se la devozione nei suoi confronti fosse la conferma di un ruolo delle donne come madri e, in particolare, come madri dolorose. 

Grazia prena, dicevano le vecchiette in chiesa, stropicciando il latino e con un effetto straniante: giacché prena era, nel dialetto locale, la mucca incinta.

Qualcosa che contrastava con l’esperienza che noi stavamo costruendo giorno dopo giorno. La mia, infatti, era la prima generazione di ragazze che studiava (non tutte; alcune mie compagne, dopo la media, erano state ritirate a casa dalle famiglie) e, per questo, vedeva (o, perlomeno, molte di noi vedevano) il proprio futuro come donne (persone) prima che come madri.

(Poi, la mia generazione, ha conosciuto travolgimenti forti, tuttora in atto, fino alla negazione della maternità come affermazione dell'individualità femminile).

Solo crescendo, di questa donna dai mille e mille titoli, pregata, cantata, dipinta più d’ogni altra creatura, ho iniziato a intravvedere qualche sfumatura che dà carne alle statue, una bellezza che non è solo quella ritratta dai grandissimi del nostro Medioevo e Rinascimento.

E solo con l’avanzare della maturità, ho iniziato a sperimentare il rosario come preghiera possibile.

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