Ho letto un libro
eccezionale, che racconta un’esperienza ancora più eccezionale. Ne sono stata
profondamente colpita.
In Fine pena: ora, (Sellerio) Elvio Fassone narra la sua esperienza di
magistrato che, dopo aver condannato un giovane mafioso pluriomicida
all’ergastolo, intraprende con lui una oltre trentennale corrispondenza.
Un libro che trasmette al
lettore emozioni tanto più forti quanto più sobria è la forma, contenuta dentro
i limiti della sobrietà del giurista.
Un libro che merita di
essere letto e discusso per la vicenda che racconta e per la domanda che pone:
se sia giusto o meno mantenere nel nostro ordinamento l’ergastolo.
Personalmente, non sono
favorevole all’abolizione dell’ergastolo. Pena terribile, certo, ma non mi
sembrerebbe corretto, da parte della comunità, sanzionare con qualcosa di meno
crimini di particolare efferatezza. Sono però convinta che l’ergastolo, anche
quello inizialmente “ostativo”, al pari di altre pene meno pesanti, vada
periodicamente riconsiderato rispetto all’effettivo percorso fatto dalla
persona che, avendo un tempo commesso un reato tremendo, è nel frattempo
diventato una persona diversa. Insomma: se, in sede di processo, non mi sento
di cassare il “fine pena: mai”, una volta verificato il positivo percorso del
condannato, mi sembrerebbe una vittoria della persona in questione e della
collettività nel suo insieme che un giudice potesse firmare: “Ora è tempo di
porre fine a questa pena”.
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