M’era già capitato
qualche ragazzo calabrese, a Nisida.
Ma è la prima volta che
un ragazzo, nato nella mia terra (che ha lasciato da bambino), dopo avermi
raccontato un po’ della sua vita (reati tanti e gravi; anni da passare in
carcere molti) mi canta una delle canzoni che ha, mi spiega, scritto in dialetto
calabrese.
Sembra una ballata popolare,
una ninna nanna antica. Se penso a come
mi cantava mia nonna, mi viene da piangere.
La sua canzone parla
d’Aspromonte, di notte scura e di lungo cammino.
La sua voce, profonda e
dolce, risuona nell’aula ormai vuota (erano una ventina a scrivere d’amore, ora
siamo solo lui ed io) con echi da Nabucco.
Nudo struggimento per
tutto ciò che non ha mai davvero avuto: una casa, una famiglia, un’infanzia
felice. Ma senza pietismi.
Ho
un po’ di depressione ma voglio guardare avanti.
La memoria, o il suo sogno,
come filo lieve del futuro.
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