Ieri, avrei voluto scrivere un
racconto di Natale. Qualche paginetta in cui riversare la nostalgia di stupore
del bene, la meraviglia delle piccole luci nel buio, la melodia che spezza l’afasia
delle parole e del pensiero.
E, invece, il racconto di
Natale mi è accaduto.
È iniziato con lo squillo del
cellulare e un agente, in servizio alla portineria di Nisida, mi dice. “Vi ha
cercato… io le ho detto che non potevo darle il vostro numero… ma questo è il
suo”.
Il tempo di digitare il numero
e mi ritrovo, qualche ora dopo, in una piazza napoletana, a rivedere M. e V.
M. è, adesso, una signora
sulla quarantina (ma ne dimostra meno), con casa e lavoro e famiglia in una
città del Nord, ma, venti anni fa era una delle ragazze rom che frequentavano
il corso per la licenza media. Era bella, vivace, intelligente – aveva e ha
occhi luccicanti – e, rispetto alle altre, aveva una particolarità. In carcere,
con lei, c’era la sua bambina. Che ha fatto i primi passi con me e di cui sono
stata madrina di battesimo: il primo, e, penso, l’unico, mai avvenuto a Nisida.
Le avevo riviste, mamma e
figlia qualche altra volta, l’ultima quando la bambina aveva fatto la prima
comunione. Poi, come accade talvolta (un cellulare che viene cambiato, un
numero che si disperde) non ne ho avuto notizie per anni.
Ma, venerdì sera sono arrivate
a Napoli, ospiti della famiglia di un pastore evangelico e sabato mattina mi ha
cercato.
Abbiamo parlato un bel po’, camminando
per strade affollate da una qualche frenesia di regali (finora rimandati per
necessità d’economia domestica), sotto un’illuminazione che a me pare da fiera
di paese e una pioggerellina leggera. Ma va bene lo stesso.
V. guarda le vetrine,
soprattutto quelle di scarpe.
Ha superato i diciannove anni.
Ha begli occhi e, sulle labbra, un filo di rossetto rosa.
Dello stesso rosa del
vestitino che indossava il giorno del battesimo.
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