Ho fatto gli struffoli. Non sono
perfetti come quelli della foto. Ma è un piccolo fatto, importante per me.
Perché, a impastare, non sono bravissima: non ho, nelle braccia, nelle mani,
nei polsi, né la forza né la velocità né il calore che serve. E, se affronto,
comunque, biscotti e focacce, non ho mai avuto il coraggio di misurarmi con
quello che, per me, è uno dei dolci più belli e buoni che esistano.
Sì, proprio un dolce calos cagathos, che prima di essere gustato – una sorta di dolce osmosi di
croccante e morbido – riempie di sé narici – per il vago odore di miele, cedro,
arance – e occhi.
Quelle palline appena dorate,
in cui occhieggiano i confettini colorati, contengono un’allegria mite, di
quelle che allargano gli occhi e fanno sorridere il silenzio.
Le amavo, da piccola, nella
versione pignolata casalinga calabrese di Carnevale e le amo, da quando le ho
conosciute, nella versione struffoli di Natale napoletana.
Pare che siano stati i primi
fondatori delle città magno greche, tantissimi secoli fa, a portarne l’uso da
noi.
A me piace pensare che siano
state le antenate calabresi a lavorare, per prime, la meraviglia di quel po’ di
pasta fritta ricoperte di miele, trasferitasi poi, nel corso dei secoli, nella
capitale del regno in forme più vistose, talora baroccheggianti.
In ogni caso, io ci ho messo
molti decenni a decidermi a provarci. Nella variante al forno (che una collega
mi ha fatto conoscere un bel po’ di anni fa).
Del genere: la vecchia teneva
cent’anni e continuava a imparare.
Nessun commento:
Posta un commento