venerdì 19 dicembre 2014

Gli struffoli e la vecchia






Ho fatto gli struffoli. Non sono perfetti come quelli della foto. Ma è un piccolo fatto, importante per me. Perché, a impastare, non sono bravissima: non ho, nelle braccia, nelle mani, nei polsi, né la forza né la velocità né il calore che serve. E, se affronto, comunque, biscotti e focacce, non ho mai avuto il coraggio di misurarmi con quello che, per me, è uno dei dolci più belli e buoni che esistano.

Sì, proprio un dolce calos cagathos, che prima di essere gustato – una sorta di dolce osmosi di croccante e morbido – riempie di sé narici – per il vago odore di miele, cedro, arance – e occhi.

Quelle palline appena dorate, in cui occhieggiano i confettini colorati, contengono un’allegria mite, di quelle che allargano gli occhi e fanno sorridere il silenzio.

Le amavo, da piccola, nella versione pignolata casalinga calabrese di Carnevale e le amo, da quando le ho conosciute, nella versione struffoli di Natale napoletana.

Pare che siano stati i primi fondatori delle città magno greche, tantissimi secoli fa, a portarne l’uso da noi.

A me piace pensare che siano state le antenate calabresi a lavorare, per prime, la meraviglia di quel po’ di pasta fritta ricoperte di miele, trasferitasi poi, nel corso dei secoli, nella capitale del regno in forme più vistose, talora baroccheggianti.

In ogni caso, io ci ho messo molti decenni a decidermi a provarci. Nella variante al forno (che una collega mi ha fatto conoscere un bel po’ di anni fa).

Del genere: la vecchia teneva cent’anni e continuava a imparare.

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