Certo, se hai un problema serio, se la
salute tua o di un tuo caro ti preoccupa, se hai appena perso il lavoro o
la casa, se stai nel vortice di un guaio, dei mondiali – come pure
d’altro, della politica magari o del dibattito su questo o l’altro
scandalo – non te ne importa proprio.
Altrimenti, se tu non vai ai mondiali, i
mondiali arrivano comunque a te tanto che una parte non indifferente
della popolazione vi collega naturalmente i propri ricordi personali:
“Caterina? Si è sposata sicuramente nel luglio dell’82… me lo ricordo
bene perché c’erano le partite dei mondiali…”.
Ci sono studi importanti sul come e
perché scattino tante emozioni, tante identificazioni di fronte ai
“propri” undici “ragazzi” che corrono (talvolta vagano) su e giù per un
campo, del perché non solo quelli che da mattina a sera discutono di
rigori fasulli, arbitri venduti e gol strepitosi, ma anche "gli altri",
quelli che non vedono mai una partita e non hanno idea di cosa sia il
fuorigioco, ogni quattro anni, si ritrovano davanti ad un televisore a
tifare la Nazionale.
La Nazionale, dal vivo, a me è capitato
di vederla solo una volta, a Napoli, al San Paolo, il 30 aprile del
1997. Un’amichevole con la Polonia, in preparazione del mondiale
dell’anno successivo. La particolarità stava nel fatto che, dopo un po’
di tempo, tornava in azzurro Roberto Baggio.
L’Italia vinceva già quando Baggio entrò
in campo ma la vittoria acquisì un colore più azzurro e un gusto più
dolce quando arrivò il suo gol. Bello, molto bello.
Il mio personale rapporto con la
nazionale passa molto (come per parecchi della mia generazione) dai gol
di Baggio a cominciare da quello, favoloso, contro la Cecoslovacchia a
Italia 90.
Quello a cui, però, sono più legata non è
il più bello, stilisticamente parlando. Ma ha una valenza, anche
simbolica, alta. E’ il gol dell’1 a 1 con la Nigeria al Mondiale
americano, quando l’Italia era pronta a tornare a casa al primo turno e
quel gol la rimise in piedi fino alla finale. Già, quella persa col
Brasile, quando lo stesso Baggio mandò in cielo il pallone.
Ora, in Brasile, ridicoleggiando quel rigore, ci hanno fatto uno spot per vendere una birra.
Neppure io ho dimenticato quel rigore, ma penso che quell’1 a 1 alla Nigeria a una manciata di secondi dalla fine sia lo spirito
del calcio, quando non è (solo) affari, miliardi e circo mediatico: la
voglia di giocarsela, tutta (non solo la partita, ma la vita), fino alla
fine. In prima persona. Con la propria squadra.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo Aspettando un gol che renda magica la notte
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