mercoledì 25 giugno 2014

Quando amore non mi riconoscerai, l'Alzheimer raccontato da V. Di Mattia






Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Il più famoso incipit del più grande romanzo della letteratura mondiale mi è tornato più volte in mente, leggendo Quando amore non mi riconoscerai di Vincenzo Di Mattia, il più dolente e sincero racconto che mi sia capitato di leggere (e ne ho letti un po’) sul terremoto che investe chi si ritrova accanto una persona amata (magari la più amata) via via travolta dall’Alzheimer.

Non tutti i casi di Alzheimer sono identici a quello raccontato in questo libro ma le pagine in cui Vincenzo Di Mattia racconta della moglie, Silvana Spirito – donna colta e sensibile già docente di Storia Medioevale all’Università La Sapienza di Roma, che l’Alzheimer fa regredire viva via in una sorta d’infanzia primitiva – hanno da dire a tutti.
A chi con l’Alzheimer ha avuto a che fare. A chi ne ha a che fare. A chi, comunque, non vuole chiudere gli occhi di fronte ad una delle più drammatiche malattie della contemporaneità (peraltro in crescita).

È un racconto sincero, uno Zibaldone di pensieri ed emozioni, che, restituendo in controluce, il volto di una signora così sottratta all’afasia totale, narra le reazioni dell’autore. Domande e riflessioni di un uomo innamorato e colto, che sa spaziare dalla Bibbia alla mitologia greca, dai misteri cristiani al pensiero dei filosofi, di fronte al male che svuota la moglie di ogni conoscenza intellettuale e di ogni competenza relazionale (lei che, in entrambe, era maestra) e depaupera la sua stessa vita, quasi privandolo dell’anima.

Ma sono le domande e le considerazioni che – anche chi non è colto, chi non ha sensibilità religiosa – continua a farsi nell’assistere una persona che via via “scompare” molto prima di morire.
Risposte non ce ne sono. Se non in quell’atteggiamento di cura, di protezione della vita, di tenerezza che Vincenzo De Mattia riserva alla moglie malata (come tanti altri, diversi da lui per condizioni culturali, sociali, ideali, riservano al marito o alla moglie o ad altro familiare).

In una società che dà al termine altre accezioni, si ha il pudore anche di dire: amore. Ma è l’unica cosa che resta, quando si resta soli, o quasi, a dover gestire una persona con cui si è tanto parlato, condiviso, costruito e che, ora, è lì, bisognosa di tutto, immersa in una povertà, spesso ben poco poetica, anzi atroce per se stessa e assai disturbante per chi ne è direttamente coinvolto e che rischia di veder scardinato ogni suo precedente equilibrio psico-fisico.

Per questo, meritano grande attenzione anche le pagine finali del libro, scritte dalla figlia, Francesca, che chiede adeguato sostegno sociale per chi si ritrova a dover assumere il ruolo di genitore del proprio padre o della propria madre.







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