Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo.
Il più famoso incipit del più
grande romanzo della letteratura mondiale mi è tornato più volte in mente,
leggendo Quando amore non mi riconoscerai di Vincenzo Di
Mattia, il più dolente e sincero racconto che mi sia capitato di leggere (e ne
ho letti un po’) sul terremoto che investe chi si ritrova accanto una persona
amata (magari la più amata) via via travolta dall’Alzheimer.
Non tutti i casi di Alzheimer sono identici a
quello raccontato in questo libro ma le pagine in cui Vincenzo Di Mattia
racconta della moglie, Silvana Spirito – donna colta e sensibile già docente di
Storia Medioevale all’Università La Sapienza di Roma, che l’Alzheimer fa regredire
viva via in una sorta d’infanzia primitiva – hanno da dire a tutti.
A chi con l’Alzheimer ha avuto a che fare. A chi ne
ha a che fare. A chi, comunque, non vuole chiudere gli occhi di fronte ad una
delle più drammatiche malattie della contemporaneità (peraltro in crescita).
È un racconto sincero, uno Zibaldone di pensieri ed
emozioni, che, restituendo in controluce, il volto di una signora così
sottratta all’afasia totale, narra le reazioni dell’autore. Domande e
riflessioni di un uomo innamorato e colto, che sa spaziare dalla Bibbia alla
mitologia greca, dai misteri cristiani al pensiero dei filosofi, di fronte al
male che svuota la moglie di ogni conoscenza intellettuale e di ogni competenza
relazionale (lei che, in entrambe, era maestra) e depaupera la sua stessa vita,
quasi privandolo dell’anima.
Ma sono le domande e le considerazioni che – anche chi
non è colto, chi non ha sensibilità religiosa – continua a farsi nell’assistere
una persona che via via “scompare” molto prima di morire.
Risposte non ce ne sono. Se non in quell’atteggiamento
di cura, di protezione della vita, di tenerezza che Vincenzo De Mattia riserva
alla moglie malata (come tanti altri, diversi da lui per condizioni culturali,
sociali, ideali, riservano al marito o alla moglie o ad altro familiare).
In una società che dà al termine altre accezioni, si
ha il pudore anche di dire: amore. Ma è l’unica cosa che resta, quando si resta
soli, o quasi, a dover gestire una persona con cui si è tanto parlato,
condiviso, costruito e che, ora, è lì, bisognosa di tutto, immersa in una
povertà, spesso ben poco poetica, anzi atroce per se stessa e assai disturbante
per chi ne è direttamente coinvolto e che rischia di veder scardinato ogni suo precedente
equilibrio psico-fisico.
Per questo, meritano grande attenzione anche le
pagine finali del libro, scritte dalla figlia, Francesca, che chiede adeguato
sostegno sociale per chi si ritrova a dover assumere il ruolo di genitore del
proprio padre o della propria madre.
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