Fu un’omelia breve, che traboccava di dolore, e, insieme, della necessità di non soccombere a tanto orrore. Così, in una chiesa trafitta da parole inattese, seppi della morte di Paolo Borsellino. Cinquantasette giorni dopo l'orrore di Capaci.
Il giovane sacerdote che cercava di infondere ai fedeli la sua passione religiosa e civile si chiamava Maurizio Calipari e da lì a pochi anni, il 4 marzo del 2005, gli sarebbe toccato piangere un altro fedele servitore dello Stato: il fratello Nicola.
In quel caldo tramonto d’estate, il 19 luglio del 1992, percorsi un po’ di chilometri di lungomare calabro piangendo in modo irrefrenabile, squassata da un dolore infinito.
Da due mesi – dall’intervista a Lamberto Sposini – seduto su un divano, il bel volto un po’ scavato, la maglietta verde, Paolo Borsellino faceva parte dei miei pensieri quotidiani. Temevo per la sua vita e speravo che lo Stato riuscisse a difenderlo: dopo Chinnici, Cassarà e Falcone almeno lui, semplicemente restando vivo, parlasse di una vittoria del bene sul male.
Mi aveva fortemente impressionato quel senso del dovere che portava negli occhi, insieme alla consapevolezza che il suo tempo era ormai breve: un cadavere che cammina compiendo fino alla fine il suo compito: con dedizione, con amore alla famiglia e alla società e allo Stato: “Ho temuto nell'immediatezza della morte di Falcone una drastica perdita di entusiasmo nel lavoro che faccio. Fortunatamente, se non dico di averlo ritrovato, ho almeno ritrovato la rabbia per continuarlo a fare. (…) Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano’. La.... l’espressione di Ninni Cassarà io potrei anche ripeterla ora, ma vorrei poterla ripetere in un modo più ottimistico. Io accetto la....ho sempre accettato il....più che il rischio, la....condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli. Il....la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in....in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare e....dalla sensazione che o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.
Non mi ha mai convinto Brecht col suo “sventurato il paese che ha bisogno di eroi…”.
Ho sempre pensato che, piuttosto, ha ancora speranza il paese che, avendone necessità, si trova ad averli, gli eroi. Continuano a commuovermi Ettore e le parole che gli ha dedicato Foscolo: E tu onore di pianti, Ettore, avrai/ove fia santo e lagrimato il sangue/per la patria versato, e finché il Sole/risplenderà su le sciagure umane.
E ho un battito diverso del cuore ai versi di Termopili di Costantinos Kavafis:
Onore a quanti in vita
si ergono a difesa di Termopili.
Mai che dal dovere essi recedano,
in ogni circostanza giusti e retti,
agendo con pietà con tenerezza
generosi se ricchi, generosi
ugualmente quanto possono se poveri,
conforme ai loro mezzi sempre sovvenendo
e sempre veritieri ma senz'astio
verso coloro che mentiscono.
E un onore più grande gli è dovuto
se prevedono (e molti lo prevedono)
che spunterà da ultimo un Efialte
e che i Medi finiranno per passare.
Della recente storia d’Italia, fatta – anche – di tanti eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino restano i più cari. E devo fare uno sforzo per non piangere quando passa sullo schermo qualche pezzo di quell’anticipo di tributo che Borsellino rende a se stesso, alla sua famiglia, agli uomini e alle donne della sua scorta il 23 giugno 1992 commemorando Giovanni Falcone ad un mese dalla strage di Capaci, alla cerimonia promossa dai boy-scout della parrocchia di Sant'Ernesto a Palermo: “Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l'estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l'amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva entrare sulla stessa lunghezza d' onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (primo problema da risolvere nella nostra terra, bellissima e disgraziata) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo di entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: La gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l'appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza”.
Pubblicato su Zoomsud Ventanni dopo. Falcone e Borsellino, ancora http://www.zoomsud.it/commenti/33572-ventanni-dopo-ancora-falcone-e-borsellino.htm
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