domenica 26 marzo 2017

La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi






«Presto ho scoperto di essere morta. Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro.»

Che gran bel libro è La notte ha la mia voce, terzo romanzo di Alessandra Sarchi, edito da Einaudi.

Emozionante, coinvolgente, ti resta addosso. E non per la solidarietà che può scattare nei confronti della vicenda, dai forti echi autobiografici, di una giovane donna costretta da un incidente su una sedia a rotelle. 

«Camminare viene prima del pensare, il piede che si stacca e avanza è il gorgoglio di una parola, la premessa di un pensiero: mi sembra così evidente, ora, che camminando non facciamo che scrivere chi siamo. E questa scrittura ripetuta, cancellata, corretta, sempre nuova, traccia la nostra libertà. Non finirà mai lo stupore per come, sollevata da terra, il mio orizzonte si sia abbassato all’altezza delle maniglie, ai pulsanti degli ascensori, l’attenzione costante alle sconnessioni del suolo, ai gradini, alle pendenze che mi fanno ruotare su me stessa e sulla mia impotenza.»

Un libro che segna per la limpida bellezza letteraria di un vero e proprio romanzo di formazione, con la protagonista che si trova a dover imparare un altro modo di stare nel suo corpo e, con il suo nuovo corpo, nel mondo – «   è in un corpo e non altrove che noi conosciamo la vita»: «… a un certo punto ti rendi conto che hai accettato tutto, più o meno. Il tuo corpo, così com’è, non ti desta più la curiosità continua che di solito spinge a osservarsi negli specchi, negli sguardi altrui, visto che siamo qualcosa che non vediamo mai per intero e che non possiamo mai, nemmeno per un istante, smettere di indossare. Ti vedi e ti senti da dentro, nell’indifferenza della materia, come quando in piscina pensi agli organi che galleggiano, avvolti da pellicole di epidermide che l’acqua trapassa. Ma gli altri, invece, continuano a vederti da fuori, dentro il tuo involucro menomato, e a porgerti la loro pena, la loro indifferenza, la loro invariabile distanza. Hai imparato a vedere le cose da un punto di vista ribassato, a convivere con il freddo che ti avvolge, come una coltre di neve perenne, e se ne va solo quando il termometro esterno supera i trenta gradi. Ci stai quasi bene in questo inviluppo organico che manda domande inutili all’universo. Hai imparato a convivere con l’alienazione. Sei una persona capace di desideri, di slanci e cadute, anche così. Gli altri la vedono sempre e solo come una disgrazia che non li tocca. Tu sai che non c’è nessun merito, e nessuna colpa, a stare dentro un corpo che si muove o dentro uno paralizzato. È stato solo il caso a decidere. Anche tu hai camminato con il tuo atavico orgoglio di bipede vertebrato, quando non ne eri nemmeno consapevole. Ma adesso susciti un senso di nudità fastidiosa: nessuno, a pensarci bene, vorrebbe i propri organi galleggiare sparsi. Gli altri non sanno, e continuano a non sapere.»

L’io narrante incontra Giovanna, la Donnagatto, anche lei paralizzata e appassionata di danza, che non intende rinunciare alla vita («L’umanità che si salva, prima di tutto, immagina.»), e cerca libertà: «La libertà interiore è un concetto bellissimo finché lo incontri nei libri, specie in quelli di filosofia, poi però ti rendi conto che la libertà viene sempre da una lotta contro gli altri, contro te stesso, contro gli appetiti e i limiti. I limiti che da ogni parte ti sovrastano. Allora, forse, a pancia piena e desideri saziati, uno può anche dire di sentirsi libero interiormente. Ma, per il resto, di libertà ce n’è sempre poca. E pensarci: tutti rinunciamo alla libertà senza troppe storie quando si tratta di sopravvivere.». « … è di libertà che si dovrebbe parlare, quando si parla di corpi. Ma come si fa, se non ce li scegliamo nemmeno alla nascita? I nostri corpi sono già passato, eredità elargita da chi ci ha generato e preceduto nella tirannia combinatoria dei geni. Passiamo l’intera vita a spiare, cercare di conoscere e curare un involucro che ci rimane in larga parte ignoto e che si deteriora secondo dopo secondo, tradendoci innumerevoli volte, mentre a noi tocca sostenerlo sino alla fine senza mai potercene liberare.»

La Donnagatto, dalla voce incantatrice, argentina e sensuale, consegna alla protagonista del libro il suo segreto (lavora in call center erotico col nome di Veronica) e, prima di allontanarsi dalla sua vita, le lascia anche l’invito ad essere più audace nella scrittura: «Da che ricordavo avevo sempre scritto, per dire che esistevo o che le cose esistevano, in un certo momento e con una certa luce, o un certo gelo, una certa aria che stava tra le persone e lo spazio, i pensieri che le avvolgevano, l’intuizione di una verità tutta diversa da quella che si vedeva. Per far vivere la vita anche dopo che è terminata, oltre i confini che le sono toccati. E ti pare poco? Dovevo andarci a fondo, disse lei. E dunque era così importante? Forse. Certo che lo era, perché mi ostinavo a mentire?»

Nessun commento:

Posta un commento