domenica 1 febbraio 2015

La fortezza di Jennifer Egan e la scrittura in carcere







La fortezza di Jennifer Egan è un gran bel romanzo sull’immaginazione, la fantasia, la rappresentazione (mentale e dei media), e sul loro rapporto con la realtà. Meglio ancora, riguarda il rapporto tra la realtà dell’immaginazione e l’irrealtà dell’esperienza insieme all’irrealtà della prima e la realtà della seconda. Insomma, un libro, in cui la trama è un continuo passaggio di specchi, dove è chiaro che la verità si trova (se si riesce a farlo e, soprattutto, se c’è) a livelli sempre più profondi e, quindi, più lontani, dalla superficie sensibile.

Ambientato in un castello medioevale in ristrutturazione e una prigione, il libro si costruisce, via via, come la scrittura di una scrittura di una scrittura, rivelando solo nelle ultime pagine l’interconnessione tra le due fortezze.

Al centro del libro (anche se recensioni che ho letto dicono altro e danno particolare attenzione a Danny e al cugino), c’è infatti la scrittura e il rapporto che si instaura, in carcere, tra Holly, insegnante, del corso di scrittura, con un passato di tossicodipendenza e il detenuto Ray, colpevole di omicidio.

C’è uno scontro tra i due, quando Ray, alla seconda lezione, scrive un racconto su un tipo che si tromba l’insegnante del corso di scrittura in uno sgabuzzino, finché la porta non si apre di colpo e…e l’insegnante gli indica la porta:

La porta è lì, mi dice Holly, e la indica. Perché non ti alzi e te ne vai?

Non mi muovo. Potrei anche uscire, ma poi dovrei restare in corridoio ad aspettare.

E quel cancello? Adesso Holly sta puntando il dito fuori dalla finestra. Di sera il cancello è illuminato: i giri di filo spinato in cima, la torretta con il cecchino dentro. E le porte della tua cella?, mi chiede. O le porte del blocco? O le porte delle docce? O le porte della mensa, o le porte dell’ingresso per i visitatori? Quanto spesso vi capita di toccare la maniglia di una porta, signori? Vi sto chiedendo questo.

L’ho capito appena l’ho vista, che Holly non aveva mai insegnato in carcere. Non per l’aspetto fisico: non è una ragazzina, e si vede che non ha avuto una vita facile. Ma la gente che insegna in carcere ha attorno una corazza che a Holly manca. Dalla voce percepisco il suo nervosismo, è come se si fosse preparata ogni parola di questo discorso sulle porte. Ma la cosa assurda è che ha ragione. L’ultima volta che sono uscito di galera, davanti alle porte mi fermavo e aspettavo che qualcuno le aprisse. Ci si dimentica che effetto fa aprirle da soli.

Holly dice: Il mio compito è mostrarvi una porta che potete aprire voi. E si batte le mani in cima alla testa. E’ una porta che vi conduce dovunque vogliate andare, dice. Io sto qui per farvi fare questo, e se a te non interessa per favore risparmiati di venire, perché il finanziamento per questo corso copre solo dieci allievi, e ci vediamo solo una volta alla settimana, e non ho intenzione di far perdere tempo a tutti con delle prove di forza da deficienti.

Si avvicina al mio banco e mi guarda. Io alzo gli occhi e guardo lei. Vorrei dirle: Ne ho sentiti di pipponi motivazionali cretini in vita mia, ma questo li batte tutti. La porta che abbiamo in testa, ma per favore. E però, mentre parlava, ho avvertito un piccolo scoppio dentro il petto. [...] quando Holly parlò di quella porta che abbiamo in testa, mi successe qualcosa. La porta non era vera, non c’era nessuna porta nella realtà, era solo linguaggio figurato. Cioè era una parola. Un suono. Porta. Ma io la aprii e uscii fuori.

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