Alba di bellezza quieta. Cielo
azzurro e un refolo freddo dove ancora non batte il sole. Un piccolo gregge di
capre coscienziosamente bruca le foglie del roseto sulla sinistra, qualcuna s’attarda
a ruminare i petali che il vento ha fatto cadere dalla grande rosa canina sulla
destra.
Una scena così, qui –magari con
altre erbe al posto delle rose – l’ha vista una pastorella magnogreca un numero
di secoli fa da capogiro.
Poi, il tempo, si concentra e s’illumina
in quella che, per me, è la più bella cappella del mondo.
La Quaresima 2014 inizia così e,
in mente, mi resta quel bel legame cenere-acqua-bucato delle parole di don
Tonino Bello. Queste:
Carissimi, cenere in testa e
acqua sui piedi.
Una strada, apparentemente, poco
meno di due metri. Ma, in verità, molto più lunga e faticosa. Perché si tratta
di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri. A percorrerla
non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì
santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la
riduzione in scala.
Pentimento e servizio. Sono le
due grandi prediche che la Chiesa affida alla cenere e all'acqua, più che alle
parole. Non c'è credente che non venga sedotto dal fascino di queste due prediche.
Le altre, quelle fatte dai pulpiti, forse si dimenticano subito. Queste,
invece, no: perché espresse con i simboli, che parlano un "linguaggio a
lunga conservazione".
È difficile, per esempio,
sottrarsi all'urto di quella cenere. Benché leggerissima, scende sul capo con
la violenza della grandine. E trasforma in un'autentica martellata quel
richiamo all'unica cosa che conta: "Convertiti e credi al Vangelo".
Peccato che non tutti conoscono la rubrica del messale, secondo cui le ceneri
debbono essere ricavate dai rami d'ulivo benedetti nell'ultima domenica delle
palme. Se no, le allusioni all'impegno per la pace, all'accoglienza del Cristo,
al riconoscimento della sua unica signoria, alla speranza di ingressi
definitivi nella Gerusalemme del cielo, diverrebbero itinerari ben più concreti
di un cammino di conversione. Quello "shampoo alla cenere", comunque,
rimane impresso per sempre: ben oltre il tempo in cui, tra i capelli soffici,
ti ritrovi detriti terrosi che il mattino seguente, sparsi sul guanciale, fanno
pensare per un attimo alle squame già cadute dalle croste del nostro peccato.
Così pure rimane indelebile per
sempre quel tintinnare dell'acqua nel catino. E' la predica più antica che
ognuno di noi ricordi. Da bambini, l'abbiamo "udita con gli occhi",
pieni di stupore, dopo aver sgomitato tra cento fianchi, per passare in prima
fila e spiare da vicino le emozioni della gente. Una predica, quella del giovedì
santo, costruita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia. Ricca di
tenerezze, benché articolata su un prevedibile copione. Priva di retorica, pur
nel ripetersi di passaggi scontati: l'offertorio di un piede, il levarsi di una
brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.
Una predica strana. Perché a
pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici simboli della povertà
umana, è un uomo che la mente ricorda in ginocchio solo davanti alle ostie
consacrate. Miraggio o dissolvenza? Abbaglio provocato dal sonno, o simbolo per
chi veglia nell'attesa di Cristo? "Una tantum" per la sera dei
paradossi, o prontuario plastico per le nostre scelte quotidiane? Potenza
evocatrice dei segni!
Intraprendiamo, allora, il
viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua. La cenere ci bruci sul capo,
come fosse appena uscita dal cratere di un vulcano. Per spegnerne l'ardore,
mettiamoci alla ricerca dell'acqua da versare... sui piedi degli altri.
Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il cammino del
nostro ritorno a casa.
Cenere e acqua. Ingredienti
primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione
completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi. Un grande
augurio.
l'immagine, tratta dallo spot Cei sull'8 per mille dello scorso anno, ritrae il cappellano di Nisida
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