Flannery
O’Connor – autrice riconosciuta tra le voci più autentiche e geniali della
letteratura americana del Novecento – allevava pavoni. “Ho intenzione –
scrisse in una lettera – di diventare l’Autorità Mondiale sui Pavoni, e spero
che una volta o l’altra mi offrano una cattedra alla Facoltà di Pollamologia”.
Benché
non le mancassero certo le parole per raccontare idee e sentimenti, sul perché
allevasse pavoni rispondeva: “Non lo so”. Ma aggiungeva che, di fronte a loro,
si teneva “in una
reverente soggezione” perché “dove c’è un pavone c’è anche una mappa dell’universo”.
Benché li incontri spesso – tutti impettiti – che se ne vanno per i
giardinetti, insieme a galline e a capre, a cercare qualcosa da mettere in pancia, l’ultima cosa che mi sarei
aspettata è di trovarmeli, stamattina,… in aula.
“Reverente” non credo sia, nel mio caso, l’aggettivo più giusto. Meglio un termine che esprima un vago senso d'inquietudine, una preferenza di distanza. Ma il
sostantivo sì. Provo un senso di “soggezione”.
Che in essi ci sia una mappa dell’universo – beh, una mappa la si può
trovare in ogni essere creato, roccia, fiore, animale che si voglia.
Ma potrei aggiungere, che in quella loro presenza proprio lì (anche se, al momento, non l'ho trovata per niente gradevole) un po’ di mappa
dell’isola c'è. Eccome.
Isola di capre, cantava Omero.
Isola dei conigli, scriveva Boccaccio.
Isola dei gabbiani, abbiamo detto noi qualche anno fa, collegandola ad un
libro di Astrid Lindgren.
Chissà, magari ci occuperemo pure della O’ Connor, visto che anche da noi si allevano pavoni.
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