venerdì 1 marzo 2024

Microstorie: L'ingegnere

 

Luisa Corallo non aveva mai pregato un santo finché, entrata in una chiesa, un giorno in cui pesantemente si sentiva oppressa da problemi familiari, non s’era accorta che la prima statua a destra rappresentava un santo nato non lontano dal suo paese d’origine e gli si era affidata. Da quel giorno, ogni giorno, entrava qualche minuto in quella chiesa per una preghiera. E ogni giorno, ci trovava, seduto e, talvolta, inginocchiato, al banco più vicino all’altare in cui veniva risposte le ostie consacrate, un signore dall’aspetto imponente ma provato dall’età e dai pesi della vita. Unica presenza in quella chiesa altrimenti vuota, ne vedeva solo le spalle, un po’ curve, la nuca leggermente incassata, la folta capigliatura bianca e un loden verde che dove aver conosciuto molti decenni ma era ancora in ottimo stato. Non portava bastone.

Luisa cominciò, prima quasi inavvertitamente, poi come per un bisogno di relazione, a figurarsi chi fosse. Gli diede un nome. Tra i tre che più le parevano più possibili scartò Giuseppe e Giovanni e si decise per Guglielmo; per cognome non ebbe dubbi: Russo. Dapprima se lo immaginò professore, magari di filosofia al liceo, poi decise che l’ingegneria gli si confacesse di più. Doveva essere vedovo: rimasto tale dopo una lunga malattia della moglie, curata con amore fino all’ultimo giorno e, di figli, forse non ne aveva o forse ne aveva ma lontani: e non solo perché abitanti in città lontane. D’età, gli diede più di ottanta e meno di novanta anni. Si immaginò una casa magari troppo grande con molte stanze chiuse oppure piccola ma con una cucina luminosa, che facesse anche da studiolo e da soggiorno, con una piccola tv e una comoda poltrona. Si chiedeva se avesse una tata che si occupava di lui e della casa a tempo pieno, o solo una signora ad ore che faceva un po’ di pulizie. Magari si cucinava da solo, un po’ di pasta, una fettina di pollo, una mela o poco più. Forse i suoi amici della giovinezza e della maturità erano morti, forse con qualcuno si sentiva ancora sporadicamente. Una persona perbene, sola. Avrebbe voluto parlargli, ma non trovava mai il modo.

Per mesi, Luisa ritrovò il suo Guglielmo allo stesso posto ogni volta che entrava in chiesa. Finché un giorno non lo vide. E non c’era neppure il giorno dopo. Il giorno dopo ancora c’era: in una bara. Nel manifesto funebre incollato nell’apposito spazio davanti alla chiesa si comunicava la morte dell’ingegnere Guglielmo Russo di anni 87, vedovo della signora Rossella Princi. Lo piangeva – c’era scritto – il nipote Filippo.

Fu qualche settimana dopo che, orecchiando due anziane signore, che aspettavano il pullman alla fermata davanti alla chiesa, che Luisa seppe che l’ingegnere Guglielmo Russo aveva perso l’unica figlia prima della moglie e che l’unico nipote, laureatosi brillantemente in ingegneria, aveva da qualche mese trovato lavoro in una multinazionale con sede al nord. La cosa era stata, per l’ingegnere Guglielmo, motivo di soddisfazione e di orgoglio, ma anche causa della pena che gli aveva sfibrato definitivamente il cuore, già da tempo malandato.

 

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