lunedì 29 agosto 2022

Rispondendo a Galli della Loggia sulla debole identità del cattolicesimo italiano

 


 

Sul Corriere della Sera di oggi c’è un interessante articolo di Galli della Loggia intitolato L’eclissi cattolica in politica che parte dall’assunto che “in Italia esiste un mondo cattolico che pensa, che scrive, che produce opere di ogni genere: ma nel discorso pubblico è un mondo pressoché assente.” Galli della Loggia indica la causa principale di questa “irrilevanza pubblica” nel fatto che “ormai l’identità cattolica appare qualcosa di talmente fluido da essere divenuta priva di connotati precisi, indefinibile, e quindi incapace di porsi come una vera protagonista del dibattito. Per esistere bisogna consistere. Ma oggi il termine cattolico può consistere in molte cose molto diverse tra di loro.” “La verità – dice ancora della Loggia è che sotto l’urto dissolvitore della secolarizzazione, il cattolicesimo non è riuscito nell’impresa – a onor del vero forse impossibile – di trovare una risposta all’altezza della sfida. Di fronte al micidiale combinato disposto di tecno-scienza e individualismo esso è passato da un’opposizione rassegnata ad un’altra, da un accomodamento compromissorio all’altro, da un’illusione benevola all’altra. Ma in questo modo l’identità cattolica, lungi dal conservarsi, si è frantumata in una costellazione di identità.”

A queste riflessioni vorrei rispondere con qualche considerazione, molto parziale, relativa alla mia esperienza.

Tra la fine degli anni Cinquanta e il primo inizio dei Sessanta del secolo scorso, tutti intorno a me erano cattolici: anche quelli atei, anche quelli che vedevano la Chiesa, meglio il Vaticano, come un centro di intrallazzi economici, anche chi aveva in tasca la tessera del Pci, sentito come il partito della giustizia sociale e degli interessi collettivi di contro una Dc percepita come più legata ai “signori” ed elargitrice di “favori”. Erano tutti cattolici perché partecipavano di una morale comune, si sposavano in chiesa, battezzavano i figli, non avrebbero neppure concepito un funerale non religioso. Pure chi non andava a messa, partecipava, ampiamente, della “sacramentalità” della stessa.

Quando, alla fine dei Sessanta arriva l’Humanae vitae – che, secondo me, segna, dopo il vento nuovo del Concilio, la prima radicale frattura tra Chiesa e Contemporaneità – il mondo, intendo il piccolo mondo di provincia intorno a me, è già profondamente cambiato. La realtà agricola, che così spazio ha nel Vangelo, con le parabole che qualsiasi contadino può cogliere nel profondo, comincia a non essere più quella principale; si va a scuola, tutti e tutte, almeno fino alla terza media, la televisione è ormai in tutte le case; l’accettazione dei “sacrifici” da sopportare “in questa valle di lacrime” cede via via il posto alla fiducia in un benessere diffuso, che renda l’esistenza più “facile”. Le chiese sono ancora piene, ma c’è uno “svuotamento” dall’interno che, progressivamente, arriva alla situazione attuale (il pontificato “trionfale” di Giovanni Paolo II ha nascosto molto

La chiesa attuale è una chiesa povera di “sacramentalità” ed è, questa, molto probabilmente, se non la causa principale, tra quelle decisive a definire la debole identità della cattolicità contemporanea. Ma possono i sacramenti, così come tuttora in vigore, “reggere” nella realtà complessa e complicata del mondo contemporaneo o “essere retti” dai fedeli del ventunesimo secolo, fedeli intesi non come “gruppi di eletti” ma, come è stato il cattolicesimo per quasi duemila anni, “chiesa di massa”?

Prendiamo, per esempio, la Confessione o Penitenza o Riconciliazione. Nella gamma ampia che va dai tradizionali sensi di colpa alla negazione del senso del peccato, con tutto quello che la psicanalisi ha rivelato sull’inconscio e la psicologia registra nei comportamenti, non è abbastanza chiaro come tale sacramento sia, almeno all’evidenza, ben poco praticato/praticabile?

O il Matrimonio. Quanti sono quelli che concepiscono davvero, poalinamente, il legame sposo-sposa come metafora del rapporto tra Cristo e la Chiesa? Non sarebbe più rispondente alla realtà proporre vari gradi “sacramentali”, con una “benedizione delle nozze” offerta a tutti e gradi più “misterici” a coppie che vivano con più consapevolezza il matrimonio sacramentale?

O il Battesimo. Su questo, in particolare, ci tengo a sottolineare che, a me, il Battesimo da neonati piace molto. Io, genitore, ti do, il meglio che ho: che la mia cittadinanza di “italiano/europeo”, la mia lingua, le tradizioni migliori dei padri e delle madri e ti offro anche quello che, per me, rappresenta la speranza che la tua vita abbia un senso che va al di là della vita stessa. E, però: non potrebbe, nella società dei matrimoni che si rompono facilmente, dove il cristianesimo non sta più nell’aria che si respira, proporre una catechesi fin da piccoli ma far sì che a decidere sia poi il ragazzo/a arrivata ad un’idea convenevole (14-16 anni)?

C’è, poi, la Messa. Naturalmente, il più dipende dalla sensibilità e dalla fede, magari profonda, dei singoli partecipanti e del ruolo, decisivo, che ha il sacerdote, con il suo atteggiamento, postura, voce e, soprattutto, omelia, ma una riflessione sulla struttura della messa a me sembrerebbe il caso di farla.

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