sabato 23 luglio 2022

Clelia Romano Pellicano, donna di Calabria

 


Figlia del barone e deputato Giandomenico Romano e di Pierina Avezzano figlia del generale Giuseppe, amico di Garibaldi, Clelia sposò a sedici anni il marchese Francesco Maria Pellicano dei duchi Riario-Sforza, anch’egli deputato: «nozze contratte in un raro e felice connubio della ragione e del cuore». Di esile corporatura, capelli corvini, occhi intelligenti e intensi, la marchesa, madre di sette figli e ben presto vedova, alternò la residenza di Gioiosa Ionica – dove fece fare dei lavori al castello di famiglia già normanno, che sorge sulla sommità della roccia, a strapiombo sulla fiumara Galizzi – con quelle di Castellammare di Stabia, Napoli e Roma, dove il suo salotto era frequentato dai ministri Orlando, Di Rudinì, Salandra e da intellettuali, scrittori e poeti, come Salvatore Di Giacomo, Luigi Capuana, Matilde Serao. Colta – parlava francese ed inglese – sportiva (fu appassionata amazzone) e di spirito vivace, la marchesa si occupò del patrimonio familiare, mostrando capacità imprenditoriali e creando a Prateria (frazione di San Pietro di Caridà) un’impresa forestale. Fu una delle prime giornaliste italiane, corrispondente della Nuova Antologia, cui collaboravano anche Pirandello, Verga, de Amicis, Grazia Deledda. Vi pubblicò un’indagine sulle donne illustri nella storia di Reggio Calabria e un’inchiesta su Donne e industrie nella Provincia di Reggio Calabria, che comprende interessanti descrizioni sulla bachicoltura, per secoli, in Calabria, svolta dalle donne in privato: «L’allevatrice, durante le quattro fasi grecamente dette ziija, arteri, trito, casarro, (le quattro ‘spoglie’ il cui intervallo è segnato dal letargo), cioè dal momento in cui il seme ha sentito i primi tepori del fuoco (quando non è una vampata che lo brucia addirittura!), fino a che i bozzoli d’oro non vengono distaccati dal bosco, durante quei quaranta giorni ogni casetta colonica è tramutata in una bacheria. Ma non è facile penetrarvi! La massaia mette ogni astuzia nel sottrarre la ‘nutricata’ agli sguardi indiscreti, perché ogni occhio invidioso le è fatale… Se si riesce a penetrare nella casetta, ch’è il più delle volte un tugurio, si è subito colpiti dal particolare odore del ‘flugello’ e dal rumore come di minutissima pioggia ch’esso fa brucando la foglia del gelso. Graticci ovunque: sulla finestra, sulla tavola, sulle sedie, finanzo il letto ha un baldacchino di cannizze, dove sopra uno strato verde formicolano i vermi bruni, giallognoli, dorati, secondo le età». La bachicultura di carattere artigianale pubblica si svolgeva a Villa San Giovanni: «Dall’impercettibile seme, al bozzolo ambrato e lanuginoso, dal bozzolo alla stoffa più fine, tutto passa attraverso un esercito di macchine che si completano l’un l’altra. La serichiera, la stufa, il cocconiere, la filatura, l’incannatorio, l’ovale, la cardatura, la tintoria. Centotrentadue donne (oltre quelle adibite al trasporto del legname ed alla pulizia dei forni) trovani in quelle filande lavoro e mercede. Nel camerone attiguo alla serichiera (una serichiera enorme, capace di contenere in due piani centocinquanta enormi graticci) sessanta operaie sono intente alla selezione del bozzolo; e chine sulle grandi tavole che ciascuna ha davanti a sé, con due canestre ai lati, tuffano rapidamente le mani nella soffice messe bionda; gettano in una cesta lo scarto, nell’altra il bozzolo scelto, che viene poi distribuito alle maestre della filatura. Due sono i metodi adatti per la filatura, quella alla Piemontese, e l’altra detta alla S. Giovanni. Nulla di più simpatico del colpo d’occhio che offre al visitatore la filatura alla Piemontese: un corridoio lungo più di 500 palmi dove, a destra e a sinistra, s’allineano 60 mangani, guarnito ciascuno di due naspi, sì che quando l’uno di essi è pieno, si sospende alla tettoia per dar tempo alla seta d’asciugarsi, e si rimpiazza con l’altro. Ciò sotto la sorveglianza di fanciulle quasi tutte giovanissime e graziose, mentre la maestra, seduta innanzi al fornello, è intenta al lavoro… Allorché i mangani sono tutti in attività si hanno circa 70 libbre di seta al giorno; ogni maestra, tirando dai naspi due fili di seta in una volta, riesce a farne per una libbra e più… Nulla manca: dai telai per le stoffe a quelli per le calze; dai grandi serbatoi che somministrano l’acqua, alle caldaie dove la seta vien messa a mollo affinché perda la gomma; dalla stufa alla tedesca, alla tintoria: tintoria alla cui direzione occorrerebbe un chimico valente perché quest’arte non continui ad essere, com’è stata finora, monopolio di pochi artisti, e quasi un segreto di cui essi sono gelosi custodi. Se il governo se ne interessasse un poco?»

La marchesa collaborò alla rivista Flegrea e alla torinese La Donna, per la quale scrisse il reportage dal Congresso Internazionale Femminile, quale delegata del Consiglio Nazionale Donne Italiane. Europeista convinta, cattolica, (fece benedire una statua di Maria da Papa Pio X e facendola trasportare da Roma a Gioiosa nella Chiesa dell’Annunziata di cui era giuspatrona) di simpatie socialiste, fautrice dei diritti delle donne (suffragio universale, istruzione, lavoro extradomestico con parità salariale) e consapevole di quella che sarebbe stata definita differenza sessuale, nel suo intervento al congresso, la Pellicano disse: «Ricordatevi voi donne d'ogni razza, d'ogni paese – da quelli dove splende il sole di mezzanotte a quelli in cui brilla la Croce del Sud – qui convenute nella comune aspirazione alla libertà, all'uguaglianza, strette da un nodo di cui il voto è il simbolo, ricordatevi che il nostro compito non avrà termine se non quando tutte le donne del mondo civilizzato saranno sempre monde dalla taccia di incapacità, d'inferiorità di cui leggi e costumi l'hanno bollate finora!»


 

Dopo anni di oblio, l’interesse nei confronti di Clelia Romano Pellicano è stato riacceso da studi quali quelli di Anna Santoro e da alcune iniziative del comune di Gioiosa. La marchesa di Gioiosa – scrittrice con lo pseudonimo di Jane Grey (dietro il nome dell’“ infelice regina artista e filosofa che a sedici anni pagò con la testa l’ambizione del padrigno Duca di Northumbeland”, voleva proteggere le sue storie “troppo ardite”), apprezzata, per alcune novelle, anche da Benedetto Croce, giornalista, intellettuale – è stata tra le protagoniste della docuserie Donne di Calabria, coprodotta dalla Film Commission della Calabria insieme a Rai cultura e messa in onda su Rai Storia, che si concluderà martedì 26 luglio con il ritratto di Jole Lattari Giugni, prima calabrese ad entrare in Parlamento. Insieme a lei, Adele Cambria, giornalista, Giuditta Levato, contadina vittima della lotta contro il latifondo, Rita Pisano e Caterina Tufarelli Palumbo, sindache (la Palumbo, la prima in Italia). Un format in cui gli interventi di esperti (politici, scrittori, studiosi), gli inserti di repertorio, le testimonianze di amici, parenti, le immagini dei luoghi sono tenuti insieme dalla “ricerca” della protagonista della puntata fatta da un’attrice (rispettivamente, in ordine di citazione: Marianna Fontana, Margareth Madè, Eleonora Giovanardi, Camilla Tagliaferri, Rocìo Muñoz Morales, Tea Falco). Un prodotto televisivo di buona qualità che ha fatto emergere come la Calabria, contrariamente alle narrazioni che la fissano contratta in un’immobilità, abbia non solo partecipato ma talvolta anticipato fermenti di modernità e di rinnovamento sociale. E come le donne, protagoniste di un percorso di emancipazione, abbiano avuto un’importanza notevole, e più d’una volta un ruolo trainante nel processo di modernizzazione della regione.

Della Romano Pellicano, l’unica delle sei donne ad essere nata nell’Ottocento (tutte le altre sono nate nel Novecento) sarebbe urgente la ripubblicazione dell’insieme dei suoi romanzi, dei più importanti suoi articoli giornalistici e interventi nei consessi internazionali. L’unico sua opera tuttora acquistabile su Amazon è Novelle calabresi, una raccolta di racconti di piacevolissima (che non significa: banale, tutt’altro) lettura. Un affresco della Calabria tra fine Ottocento e inizio Novecento, fatto di pennellate dense e vivide, in cui il realismo della descrizione non assume mai, anche quando si narrano drammi, certi tratti cupi e desolati di taluni grandi maestri cui pure la Romano Pellicano si ispira (da Verga a Fogazzaro a Capuano), ma si fa, piuttosto, sguardo perspicace, sensibile partecipazione, amichevole ironia di chi è convinto che il mondo, compreso quello calabrese, possa positivamente evolvere e in questa direzione prova ad agire.

Di particolare impatto la novella conclusiva, Potere giudiziario e potere amministrativo:«Il teatro della farsa è un paesello della provincia di Reggio, posto sull’altura; protagonisti e antagonisti, il protagonisti ed antagonisti, il pretore Aspasia, giunto di fresco con poca dottrina e molta albagia, e il barone Gullì, pezzo grosso del paese, capo dell’opposizione, ricco di censo e di autorità; entrambi testardi, partigiani, tenaci negli odi come negli amori: due ossi duri da rodere. (…) Una guerra scoppiata per ragioni politiche. L’opposizione, con a capo il barone Gullì, sta per rovesciare il partito governante, alla cui testa è l’onorevole Colantoni, un Depretis in ventiquattresimo, volpone di tre cotte, che per un ventennio ha retto senza controllo le sorti del Comune. (…) Aspasia potrebbe e dovrebbe restarvi estraneo, ma si prevede che nell’imminente bufera non uno dei vecchi santi rimarrà sul piedistallo.» Il pretore vuole che non venga toccato un suo protetto e Gullì sarebbe lieto di «risparmiare la testa di costui per avere il piacere di offrirla al Pretore in pegno di futura amistà», ma nella rovinosa caduta di Colantoni nessuno si salva. Col risultato che tra Gullì e il pretore «la guerra è dichiarata.» e si svolge senza esclusione di colpi.

Pagine leggere, quelle della Romano Pellicano, di quella lievità che nulla ha a che fare con la superficialità, la banalità e la mancanza di senso critico, e molto con il dono di cogliere e restituire il nucleo degli accadimenti con occhi penetranti e sereni. Con forme e gusto anche teatrale – che, oggi, può essere visto come televisivo – e un moderno uso anche di talune forme di metatesto, le sue novelle raccontano di usi, abitudini, vestiti, feste religiose e no (per esempio, La farsa di Rosetta) e indagano i meccanismi sociali del potere, il ruolo del clero e la condizione della donna, in una fase in cui si mantengono i vincoli del passato, ma Anaide, la ragazzina analfabeta di Una effimera, impara a leggere e insegna ad altri a farlo e l’emigrazione modifica i ruoli anche in agricoltura: «Adesso a noi donne non manca (in assenza di uomini, ndr) che guidar l’aratro e potar la vigna». Nelle Novelle, Clelia Romano Pellicano crea personaggi che restano nella memoria: dalla Schiava, gelosa ma legata al marito da un sentimento di totale asservimento all’Infanticida (dedicata a Grazia Deledda; ogni novella ha una dedica che ne indica anche l’atmosfera), che il tribunale definisce innocente grazie alle false argomentazioni del medico condotto che spera di averne le grazie ad Anna Maria Fazzolini, che il fratello vorrebbe monacare per evitare il pagamento de La Dote e che riesce a scappare con l’innamorato, che ha titolo baronale ma niente soldi, a Innocenza, la protagonista di Medioevo moderno, stuprata con il consenso della madre, la prima notte di nozze con il suo Giusi, dal signorotto locale, «grasso e grosso, di un’ignoranza marchiana, impacciato nel titolo e nelle ricchezza nuove come un pulcino nella stoppa, prepotente senza ardimento, superbo senza fierezza, prodigo per sé e avaro per gli altri» a Marinarella, la bambina uccisa dal morso di una tracina, dove appare una Contessa, nei cui tratti eleganti la stessa autrice, forse, si è rispecchiata.

Per molte ragioni, sebbene non ne abbia mai raggiunto la notorietà, Clelia Romano Pellicano non è tanto lontana da Grazia Deledda e da Matilde Serao. Le donne calabresi che hanno scritto e che tuttora scrivono hanno “madri” in autrici di ogni parte del mondo. Ma dovrebbero poter sapere che, volendo, ne hanno una calabrese per scelta che ha conosciuto e raccontato le loro nonne con quello stesso atteggiamento – senza odio, senza amarezza, senza paura, senza critiche o recriminazioni – che Virginia Wolf attribuiva alla più perfetta tra gli scrittori, Jane Austen.

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