sabato 18 febbraio 2017

Kent Haruf e Donatella Di Pietrantonio: consigli di letture









«Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.
Cosa? In che senso?
Nel senso che siamo tutte e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire da me, la notte. E parlare.
Lui la fissò, rimase a osservarla incuriosito, cauto.
Non dici nulla. Ti ho lasciato senza parole? Chiese lei.
Penso proprio di sì.
Non parlo di sesso.
Me lo stavo chiedendo.
No, non intendo questo. Credo di aver perso qualsiasi impulso sessuale un sacco di tempo fa. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starcene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore, non trovi? »

Avevo già letto e molto apprezzato la Trilogia della Pianura di Haruf, ne conoscevo lo stilo scarno e potente. Ciò nonostante, Le nostre anime di notte, il suo libro postumo, appena pubblicato da NN, mi ha spiazzato. 

Davvero indimenticabile la storia, dominata da un senso d’urgenza, “prima che sia troppo tardi”, di due vedovi settantenni di Holt, l’immaginaria cittadina del Colorado dei romanzi di Haruf. 
Addie Moore e Luis Waters, scoprono di poter superare la sostanziale, non detta, dignitosa disperazione delle loro vite, trascorrendo le notti insieme. 

Ma saranno costretti a scegliere tra libertà personale e senso di responsabilità sociale, trovando forme meno intime per continuare a riscaldarsi con la luce dolce e morbida delle loro parole: «Ma stiamo andando avanti, non è vero? Disse lei. Stiamo continuando a parlare. Fin quando potremo. Finché dura.»

Haruf ha scritto Le nostre anime di notte quando stava già molto male, per “non rimanere qui seduto ad aspettare”, convinto di “riuscire a scrivere ogni giorno”: “L’idea di provare a lasciare una traccia di ne era parte di quanto avevo in mente.”

L’incontro di due persone anziane che trovano un modo per arricchire la loro vita, quando più non pensavano di poterle dare una svolta, risente della necessità dell’autore di non darla del tutto vinta alla morte imminente ed accresce l’emozione profonda che il libro trasmette.

***





«Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa. (…) Dopo lo scatto metallico è comparsa una bambina con le trecce allentate vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista.» A tredici anni, una bambina è costretta a lasciare quelli che ritiene i suoi genitori per tornare a vivere nella sua effettiva famiglia: i genitori e i numerosi fratelli stipati in una casa ben diversa da quella dove è cresciuta amorevolmente accudita. È un piccolo mondo povero, ignorante, dalle scarne parole e dai gesti senza gentilezza. 

«Ero l’Arminuta, la Ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. (…) oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.»

L'aiuta a ritessere i fili di una vita strappata la sorella Adriana: «Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate.»

Donatella Di Pietrantonio – che ha esordito nel 2011 con Mia madre è un fiume, Elliot editore; Premio Tropea – si conferma con L’Arminuta, recentemente edito da Einaudi, una delle voce più autentiche della nostra narrativa. Abruzzese, sembra riprendere dalla sua terra natale, una scrittura aspra, addirittura ruvida, ma con accensioni improvvise di emozioni. 

Molto particolare il taglio con cui guarda alla maternità e alla sorellanza (bellissima la raffigurazione di Adriana, bambina dai ragionamenti adulti e dalle parole senza filtri) e altrettanto personale la lingua con cui ne parla.


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