sabato 7 gennaio 2017

Le cure domestiche di Marilynne Robinson








«Quando sono diventata così diversa dall’altra gente? Forse accadde quando seguii Sylvie sul ponte, e il lago ci reclamava, oppure quando mia madre mi lasciò ad aspettarla, e creò in me l’abitudine all’attesa e alla speranza che rende ogni attimo presente particolarmente significativo per ciò che non contiene. Oppure successe al mio concepimento. Del mio concepimento so soltanto quel che voi sapete del vostro. Si verificò al buio e senza il mio consenso. Io (e questa esilissima parola è fin troppo consistente per quella cosa rarefatta che ero allora) camminavo in un oblio eterno e irraggiungibile, nello stato d’animo di chi annusi fiori che sbocciano di notte, ed ecco che a un tratto i miei violentatori lasciarono in me tracce, maschio e femmina, e con il passare dei mesi mi arrotondai, divenni pesante, finché non si poté più coprire lo scandalo e l’oblio mi espulse. Per una qualche lugubre alchimia ciò che era stato puro non essere diviene morte quando si mescola alla vita. E così loro sigillano la porta per impedire il nostro ritorno. Poi c’è il problema dell’abbandono di mia madre. Ancora una volta, questa è un’esperienza comune. Loro camminano davanti a noi, e camminano troppo in fretta, e ci dimenticano, perse come sono nei loro pensieri, e prima o poi scompaiono. L’unico mistero è che noi ci aspettiamo che accada diversamente.»

Pubblicato solo recentemente in Italia da Einaudi, Le cure domestiche è il primo libro di Marilynne Robinson, autrice di una trilogia – La casa, Gilead, Lila –, che costituisce un piacere grande per tutti i lettori che amano le scritture belle e ricche di significati, tra l’altro una delle pochissime scritture attuali capaci anche di affrontare il discorso su Dio.

Inserito dal Guardian tra i 100 libri di tutti i tempi da leggere e dal Time Magazine tra i cento migliori dall’anno di fondazione della rivista, Le cure domestiche è un romanzo emozionante, capace come pochi di trattare di famiglia, solitudine, diversità: «La solitudine è una scoperta assoluta. Quando uno guarda dall’interno una finestra illuminata, o guarda il lago dall’alto, vede la propria immagine in una stanza illuminata, la propria immagine tra gli alberi e il cielo – l’inganno è evidente, ma tuttavia lusinghiero. Quando invece uno guarda la luce dall’oscurità, vede in pieno la differenza tra questo e quello. Forse tutta la gente che non ha un riparo ha il cuore pieno d’ira, e vorrebbe tanto rompere un tetto, con assi e travi, e spaccare le finestre e allagare il pavimento, attorcigliare le tende e sfondare il divano.»

A narrare la vicenda è Ruth che, con la sorella Lucille, viene abbandonata dalla madre, che sta per suicidarsi, davanti alla casa di una nonna che non conosce, in un paese sperduto del Midwest, Fingerbone, dove il nonno era sprofondato nel lago con tutto il treno che conduceva: «Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di trauma, finché tutto il trauma non si esaurì, e tempo e spazio e luce ridivennero immobili e nulla parve più tremare, e nulla parve più piegarsi. Il disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo seguì non fu più grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu comunque quella. E la normalità si ricompose senza alcuna cicatrice come un’immagine dell’acqua.»

Accudite prima dalla nonna, poi, dopo la sua morte, da due signorine sue parenti, le due sorelle passano infine alle cure della sorella minore della loro madre, Sylvie, temperamento nomade e vagabondo, dai modi stravaganti e dalle reazioni spesso inquietanti, del tutto inadatta al ruolo di “madre supplente”.
«Sylvie parlava moltissimo di cure domestiche. Mise a mollo per settimane tutti gli strofinacci, in una vasca piena d’acqua e candeggiante. Svuotò le credenze e le lasciò aperte a prendere aria, e una volta lavò metà del soffitto di cucina e una porta. Sylvie credeva nei solventi forti e soprattutto nell'aria. Era per amore dell’aria che apriva porte e finestre, benché fosse probabilmente per dimenticanza che poi le lasciava aperte. Fu per amore dell’aria che in una giornata precocemente splendida trascinò con fatica il divano letto color prugna di mia nonna nel giardino davanti a casa, dove lo lasciò finché non sbiadì in un rosa pallido.»

Prima fortemente unite, – «Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata. Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di vederli. (…) Chiunque abbia un solido legame umano si compiace di sé in questo modo, ed è proprio questo compiacimento che le persone solitarie agognano e ammirano, oltre al benessere e alla sicurezza.» – Lucille e Ruth fanno, crescendo, scelte diverse.

La prima scappa di casa e si rifugia da una vecchia signora per vivere una vita normale, Ruth si lega sempre più a Sylvie e, insieme, si danno al vagabondaggio, senza mai dare notizie di sé a Lucille: «Noi non siamo a Boston. Per quanto Lucille possa cercarci non ci troverà mai lì, né troverà alcuna traccia o segno della nostra presenza. Non ci fermiamo affatto a Boston, nemmeno ad ammirare la vetrina di un negozio, e i perimetri del nostro vagare non la sfiorano. Nessuno, osservando questa donna che traccia con l’indice le sue iniziali sul vetro appannato del bicchiere d’acqua, o infila nella borsa pacchetti trasparenti di cracker salati per i gabbiani può sapere quanto i suoi pensieri siano affollati dalla nostra assenza, né può sapere che lei non guarda, non ascolta, non aspetta, non spera, e mai altri che me e Sylvie.»

Un libro intenso, lieve e forte, pervaso da una malinconia vibrante e luminosa, da gustare con calma: un puntino che fa luce, anche nel buio intorno.

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