domenica 15 marzo 2015

Il Papa, gli insegnanti e la scuola in carcere






«Amate di più gli studenti ‘difficili’, quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili e gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola. E ce ne sono di quelli che fanno perdere la pazienza. Non amate solo quelli che studiano; se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? Qualsiasi insegnante si trova bene con questi ed è chiamato ad impegnarsi nelle periferie della scuola, che non possono essere abbandonate all’emarginazione, all’ignoranza, alla malavita.»

Se l’intervento di ieri di papa Francesco (riportato qui sotto) può essere assunto come il Manifesto dell’insegnamento, il brano evidenziato qui sopra appare quasi come una sorta di aggiunta, specifica per i docenti, al Discorso della Montagna.

Una beatitudine, estremamente difficile, ma indispensabile, come sa bene chi insegna in luoghi e situazioni in cui si concentrano le tante periferie del nostro tempo: periferie sociali, economiche, culturali, periferie dell’anima.

Per esempio, per coloro che, insegnando in un carcere minorile, hanno una delle ultime, potenziali, occasioni di fare da tramite tra ciò che attiene, specificamente e in senso più ampio, alla cultura e ragazzi che nei confronti della stessa hanno un generale atteggiamento di indifferenza e, più spesso, di insofferenza e ostilità. Per dirla in termini sgradevoli, ma più vicini alla realtà: che la cultura la schifano.

In carcere (mi riferisco a Napoli), arrivano sempre più ragazzi che la licenza media l’hanno presa. Ma è un titolo senza contenuto: non sanno nulla o quasi, né leggere, né scrivere, né far di conto, per non parlare di qualche nozione di storia, di geografia, di lingua straniera.

La scuola non li ha respinti, ma non è riuscita a integrarli davvero in un processo di crescita.

Non è colpa degli insegnanti che lavorano in territori difficili, con classi difficili, in situazioni difficili.

È il segno di un limite di attenzione complessiva della nostra società alla crescita dei nostri ragazzi, di una carenza di rete sociale che faccia fronte a problematiche immani, che hanno una concentrazione più alta in alcuni territori.

La stragrande maggioranza dei ragazzi che arrivano in carcere non presentano solo un deficit di conoscenze (a fronte, molto spesso, di intelligenze vivaci), ma sono, sempre di più, di quelli che “fanno perdere la pazienza”.

Dentro e dietro i loro atteggiamenti non è difficile cogliere infanzie non vissute, psicologie terremotate da esperienze sfrantumanti, le corazze di rabbia e aggressività di chi vede sbocchi vincenti alla propria vita solo nell’illegalità.

Giovani vite devastate. Ricominciare non è facile. Riuscire a venirne fuori non è lontano dal miracolo.
La scuola, in carcere, ci prova. Giorno dopo giorno. Spesso perdendo. Talvolta aprendo dei piccoli canali di comunicazione che, forse, chissà.

Ora, il passaggio dai CTP (nel cui ambito è stata fino ad ora inserita la scuola in carcere) ai CPIA rischia di dimensionare, ovvero di ridurre, la presenza della scuola in carcere.
Sarebbe una scelta socialmente sensata?


Il disegno di copertina di Cecilia Latella del primo volume dei Racconti per Nisida è diventato il simbolo del progetto Nisida come Parco Letterario e Naturale

«Insegnare è un lavoro bellissimo, peccato che gli insegnanti sono malpagati: è una ingiustizia. Non è solo il tempo che spendono per fare scuola: debbono prepararsi.
Nel mio Paese che è quello che conosco meglio, i poveri insegnanti per avere uno stipendio che sia utile debbono fare due turni. E mi chiedo: un insegnante come finisce dopo due turni?
In 70 anni l'Italia è cambiata, la scuola è cambiata, ma ci sono sempre insegnanti disposti ad impegnarsi nella propria professione con entusiasmo e disponibilità. Insegnare è un lavoro bellissimo, perché consente di veder crescere giorno per giorno le persone che sono affidate alla nostra cura. È un po’ come essere genitori, almeno spiritualmente. È una grande responsabilità.
Insegnare è un impegno serio, che solo una personalità matura ed equilibrata può prendere, un impegno che può generare timore, ma occorre ricordare che nessun insegnante è mai solo: condivide sempre il proprio lavoro con altri colleghi e con tutta la comunità educativa cui appartiene.
Amate di più gli studenti ‘difficili’, quelli che non vogliono studiare, quelli che si trovano in condizioni di disagio, i disabili e gli stranieri, che oggi sono una grande sfida per la scuola. E ce ne sono di quelli che fanno perdere la pazienza. Non amate solo quelli che studiano; se amate solo quelli che studiano, che sono ben educati, che merito avete? Qualsiasi insegnante si trova bene con questi ed è chiamato ad impegnarsi nelle periferie della scuola, che non possono essere abbandonate all'emarginazione, all'ignoranza, alla malavita.
In una società che fatica a trovare punti di riferimento è necessario che i giovani trovino nella scuola un riferimento positivo. Essa può esserlo o diventarlo se al suo interno ci sono insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di conoscenze tecniche, ma puntando a costruire una relazione educativa con ciascuno studente, che deve sentirsi accolto ed amato per quello che è, con tutti i suoi limiti e le sue potenzialità.
Per trasmettere contenuti è sufficiente un computer, per capire come si ama, quali sono i valori, e quali le abitudini che creano armonia nella società ci vuole un buon insegnante.
Aprite le porte, spalancate le porte della scuola.»

Papa Francesco, Udienza alla Unione cattolica insegnanti medi (Ucim). 14.03.2015

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