martedì 12 ottobre 2021

Microstorie: La seconda estate di pandemia


Bisogna strappare la gioia ai giorni futuri. In questa vita non è difficile morire. Vivere è di gran lunga più difficile. Vladimir Majakovski

 


Taratatà. Il motivetto di whatsapp avvertì che era arrivato un messaggio. Anna spostò sulla mano sinistra la pianta di gelsomino appena comprata e cercò con la destra il cellulare nella confusione della sua borsa di stoffa.

-          Ecco il raccolto di stamattina – scriveva suo cugino Pepè sotto una foto che ritraeva tre cassette di fichi. – Passa da qui, ce n’è un cestino per te.

Salendo in macchina, quasi si scontrò con un uomo che la omaggiò di un deferente inchino. Non lo riconobbe, ma gli sorrise dietro la mascherina prima di mettere in moto.

Alla seconda estate di pandemia, Lucernaspenta s’era ripopolata di chi, in paese, tornava in vacanza, a ritrovare, insieme ai parenti, le madeleine dell’infanzia e della giovinezza. Negli anni precedenti, i discorsi estivi tra chi ci abitava tutto l’anno e chi ci stava solo a luglio e agosto si soffermavano anche sui mali antichi e presenti di Lucernaspenta ed era difficile trovare chi si dicesse se non ottimista almeno fiducioso sul futuro. Ora si discuteva solo di vaccini. Quando si parlava. Era come se ciascuno si fosse ritirato nel piccolo mondo di cerchie ristrette.

Per Anna, era cambiato poco. Anche in tempi normali e perfino da giovane aveva vissuto ritirata, poche uscite e pochi contatti, oltre il lavoro: che, con la pensione, s’erano ancora rarefatti. Annaspava, a cicli, in una sorta di vaga depressione. Che alcuni giorni era un senso di marginalità rispetto alla vita e altri diventava un rimpianto di tutto ciò che non era e non sarebbe più stata. Interrotti da qualche ora in cui si avvertiva leggera, senza turbamenti, addirittura piacevolmente eccitata come in attesa di una buona notizia che desse luce ai suoi giorni. Aveva una mente razionale, capace di lucide analisi, ma a governala era un’umoralità di cui si vergognava, ma da cui non riusciva a tirarsi fuori. Forse non voleva neppure venirne fuori, perché, abituata al suo, si sarebbe trovata in un mondo nuovo, troppo sconosciuto da attraversare.

Sentì le lacrime scorrerle per le guance. Ma non ebbe il tempo abbandonarsi al languore malato che già le saliva alla gola. La macchina davanti a lei slittò a sinistra poi colpire furiosamente una macchina parcheggiata sulla destra e carambolare due o forse tre volte prima di ricadere in verticale nel mezzo della strada. Riuscì a frenare mentre pensava che la sua vita stesse finendo con una morte violenta e banale.

Non scese dalla macchina – altri l’avevano fatto, l’ambulanza era stata chiamata, i carabinieri stavano arrivando – e, appena le fu possibile, sorpassò. Sarebbe andata a prendere i fichi. Magari ne avrebbe fatto una confettura. Poi avrebbe trapiantato il gelsomino che aveva riempito la macchina del suo profumo. Anche se, trapiantato ad agosto c’era il rischio che morisse presto.

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