sabato 5 agosto 2017

Memoria del cuore. Racconti della guerra 1915-1918 di Corrado Alvaro





«Io ero allora uno e un milione; non ero un uomo, ma tutti gli uomini.»

Non hanno quasi mai un nome proprio i protagonisti dei quindici racconti della guerra 1915-1918 di Corrado Alvaro, recentemente pubblicati, a cura di Anne-Cristine Faitrop-Porta, da Città del Sole con il titolo Memoria del cuore. Sono, semplicemente, un soldato, un tenente, un ufficiale: «L’umanità dei soldati era tutta eguale, ognuno credeva di compiere un atto diverso dagli altri, e tutti evidentemente ripetevano lo stesso atto, dicevano le stesse parole, volevano la stessa cosa.»
Giovani senza un volto, senza caratteristiche particolari. Tutti avvolti nei ruvidi panni militari, i pesanti scarponi ai piedi, eppure come immersi in una bolla d’irrealtà: «Pareva che la notte dovesse durare fino a quando il treno non fosse arrivato a destinazione nella zona di guerra; una notte artificiale; invece verso Bologna schiarì, venne l’alba solita, uguale a tutte le albe del mondo, serena. Eppure c’era gente che partiva per la guerra, attraverso la strada ferrata aperta e tormentata come una piaga, e partiva lo stesso ora che il sole mostrava tutto chiaro, le vigne cariche di frutti, e le stoppie del grano vendemmiato.»

L’unica concretezza è quella della natura, in particolare le zone dell’Isonzo «che avevano, nel tempo della guerra, nomi tanto armoniosi: Salicetto, Villanova, e che so io, tutti nomi che sapevano di donna e di libertà, perché la guerra, a quelli che la cominciavano, aveva sentore di libertà e di donna», e il susseguirsi delle stagioni: «Era l’estate; la terra gialla a perdita d’occhio, gli alberi lontani divenuti grigi e selvaggi in quella solitudine: e qui stavamo con un senso di malessere, come se ci vedessero da tutte le parti mentre eravamo intenti a rimpulizzirci, se non altri ci vedeva l’occhio chiaro del sole.»

Nella natura, soldati e ufficiali, figli di, o molto spesso, essi stessi contadini, ritrovano sprazzi di normalità: «Era bello vedere come la terra si riveli e si confidi a poco a poco, a camminarvi si ritrovino i luoghi intimi e caldi, come in un viso la bocca, le porte afose delle stalle, i giardini e gli orti, le fratte e i boschetti; e tutte queste piccole cose sulla superficie liscia della pianura acquistano un valore, un senso, una grandezza d’infanzia. Qui era la vita, le faccende d’ogni giorno, le ore degli orologi, i santi e Dio che si pregano. Gli animali confortatori degli uomini, ripetevano l’immagine della vita con un senso familiare e grottesco, compagni delle donne e dei bambini cui li legava una segreta amicizia.»

Ma il sentimento più diffuso è un senso di provvisorietà: un’urgenza di vita: «Allora il giovane ufficiale cominciò ad avere voglia di tutto, come se in una giornata potesse bere il mare. Quante cose gli sfuggivano e gli mancavano, quante cose non aveva mai conosciuto» e, insieme, un’attesa di morte: «Domani non sarebbe stato più qua, nessuno si sarebbe accorto che lui era sparito.»
Il rimpianto del passato trabocca nell’evanescenza del futuro: «Non capiva perché doveva, proprio lui, camminare per giungere in linea. Gli pareva d’essere un grano sfuggito alla misura del mercante. Fu quello il momento in cui si ricordò della sua vita. A rivedere gli anni trascorsi, le fatiche durate, i dispiaceri di casa sua, la fatica di studiare, tutto insomma il suo passato mantenuto integro e onesto, era preso da sbigottimento e pentimenti.»

Lo sfumare della vita prende corpo e volto di donne: «I soldati pensavano alle donne non per altro che per avere qualcuno cui dire tutto, e le cose più primitive che venivano loro in mente, perché le donne avevano tempo e parevano capire; essi volevano sentire che esistevano, che avevano un passato, che il mondo non era proprio finito, e bastava sapere che donne esistevano ancora per ascoltare quello che era di troppo nel cuore, e quasi tutte cose indifferenti, lontane, che tornavano in mente a quei giorni.»
L’incontro con una donna, le sue vesti, il suo sorriso, le sue parole, resta il ricordo-sogno impalpabile che accompagna i militari, il loro unico, flebile legame con l’ipotesi che ci sia ancora un domani.

Meritoria la scelta di Città del Sole di pubblicare i racconti di guerra di Corrado Alvaro.

Racconti che, forse, non hanno uguali nel panorama della letteratura bellica. Non c’è, qui, nessuna battaglia, nessun gesto eroico o antieroico, nessun riferimento ideologico. Esclusa qualche battuta, manca addirittura la guerra, strage indicibile e impensabile: «Arrivò strisciando fino a noi la staffetta che portava la posta. Da fuori ci scrivevano come se non accadesse nulla, ci parlavano delle solite cose, dei parenti e degli amici, delle nostre terre lontane, dei campi e del raccolto. La guerra non esisteva. Essi non sapevano immaginarla; neppure noi del resto, perché non riuscivamo mai a raccontarla com’era.»

Ma c’è, nella sua nudità, l’animo stranito, deprivato delle normali coordinate spazio-temporali, di una generazione di ragazzi costretti ad affrontare l’inutile strage: ragazzi che sentono sbocciare in loro la gioventù nello stesso tempo in cui essa stessa può appassire e, addirittura, morire.

Alvaro tratteggia questo stato d’animo con estrema delicatezza, dando toni e coloriture d’acquarello ai suoi racconti. Stile sobrio, lirico senza un filo di retorica, nessuna parola oltre il necessario, Alvaro celebra una gioventù che si trovò a vivere un’esperienza personalmente incomprensibile e destabilizzante. E, con dignità, difese, dalle buche delle trincee «al riparo come in un alvo materno» una terra appresa come propria: «Quando scorse le Alpi capì veramente che cosa fossero le porte della patria. La pianura si aggrappava alla barriera come una bella donna che dorma tra le braccia dell’amato.»


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