sabato 25 luglio 2015

Mandorle nostrane? No. Dalla California






Al supermercato di un grande centro commerciale reggino, ieri mattina, faceva bella mostra di se uno scatolone pieno di mandorle sgusciate. Avevano un buon aspetto. A occhio, mi sembravano ‘mareme, la qualità più reggina che ci sia (e la migliore in assoluto, a gusto mio). Ma le scritte sullo scatolone non lasciavano alcun dubbio sulla provenienza: California, Stati Uniti d’America.


Cinquanta anni fa (circa), le mie estati sapevano di mandorle. Ne ho raccolte chili su chili e altrettante ne ho sbucciate, prima del mallo verde, poi del guscio legnoso. Era un’attività che accumunava più generazioni, dalle albe di luglio alle sere d’autunno.

I fiori di mandorlo, che anticipavano l’estate talvolta (spesso) anche a gennaio, il latte di mandorla, ‘i ‘mmenduli ‘nturrati, gli amaretti, erano patrimonio di tutta un’area del reggino dove gli alberi crescevano anche nei dirupi più seccagni.

Non grandi proprietari di terre, ma piccoli contadini ne producevano più balle (ogni balla equivaleva ad un quintale). Non poco, considerando soprattutto che stiamo parlando delle pastidde, ovvero del frutto commestibile (per un chilo ce ne vogliono sei ancora nel guscio legnoso).

Oggi, da queste parti, di mandorli se ne vedono pochissimi e, al massimo, si sente qualcuno dire: “Ne abbiamo raccolto qualche chilo. Per i dolci di Natale basteranno”.

Non rimpiango il passato (se ci fossimo rimasti dentro, non sarei qui a scriverne). Eppure mi sembra assurdo che siamo riusciti a distruggere buona parte (o tutto?) di quello che, nei secoli, avevamo costruito e che avrebbe potuto essere ( a saperlo far fruttare) ancora ricchezza.

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