giovedì 14 maggio 2015

Dalla lista degli ultimi libri letti






In Calabria, un ragazzo diciassettenne uccide la madre (adottiva) e si tatua sul braccio “Ti voglio bene mamma”. La vicenda mi colpisce molto perché si aggiunge a tante storie di adozione finite decisamente male con cui, in qualche modo, sono venuta a contatto in questi ultimi anni.
Poiché guardo all’adozione (al contrario dell’utero in affitto et similia) con grande stima e simpatia, mi è piaciuto molto leggere Il mare non chiude mai. Adottare tre bambini e restare allegri di una giornalista che cela la sua identità dietro lo pseudonimo di Amaltea.



E’ da poco in libreria l’ultimo giallo di Mimmo Gangemi La verità del giudice meschino. Ma è recentissima la pubblicazione del suo precedente romanzo, L’acre odore di aglio, per il quale ho scritto su Zoomsud questa recensione:

È un romanzo. Bello. Intenso. Potente. Percorso da quel senso di dignità e, insieme, di tragicità dell’umana esistenza che spesso impregna i romanzi che restano. Un acre odore di aglio di Mimmo Gangemi, recentemente edito da Bompiani, è uno dei pochi (potenziali) classici scritti in questi ultimi anni.
Ed è, insieme, un libro di storia. Nel senso che è uno dei pochissimi romanzi (saranno quattro, cinque in tutto) che danno il senso profondo di che cosa è stata la Calabria tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento.

Quando la sua storia è stata fatta, in larga parte, da contadini che, con fatica enorme, hanno dissodato la terra, sottraendo al seccagno terrazza dopo terrazza da coltivare, ripartendo dopo ogni brutta annata dell’olio o dopo ogni piccola e grande catastrofe, dal terremoto all’alluvione.
Contadini che hanno tenacemente resistito ad ogni evento contrario e hanno provato a costruire un po’ di futuro, per esempio iniziando, appena possibile, a far studiare qualche figlio ma che non sono però riusciti a raggiungere il resto della storia nazionale. Come se ad ogni passo avanti, qualcosa di superiore alle loro forze li avesse costretti a due passi indietro.

La pesantezza della storia e la fragilità dell’ambiente naturale e, a specchio, la fragilità della storia e la durezza dell’ambiente naturale sono il respiro, l’aria, l’acre odore di aglio in cui restano contratte vite fatte di lavoro, di sofferenza e di un senso dell’onore che ruota tutto intorno alle donne di casa, che, subordinate prima al padre e poi al marito, devono essere servizievoli, di poche e rette parole come si conveniva alle femmine.
I fatti della storia – l’arrivo dei Mille, il terremoto del 1908, la grande guerra, il fascismo, la seconda guerra mondiale – pur intersecandosi, spesso in maniera violenta e duratura, con le loro vite, vengono dignitosamente sopportati come un dato dell’ineluttabile destino. 

Nelle vicende di Cola e della sua famiglia, dei suoi genitori, dei suoi figli e dei suoi nipoti, molti calabresi nati negli anni cinquanta e precedenti possono facilmente riconoscersi, con grande emozione, ritrovando pezzi della propria storia familiare o, comunque, persone e storie che hanno ben conosciuto da bambini.
Tutti possono vedere, attraverso la chiarezza che è virtù propria della grande letteratura, quali sono le vene profonde cui attingono le radici più recenti della Calabria.

La dignità contadina e popolare nell’affrontare la vita con coraggio a mani nude pur senza una classe dirigente degna di questo nome e la forza degli affetti familiari, il fare famiglia che stempera e supera dall’interno gli stereotipi dei ruoli pur ampiamente accettati come indiscutibili (con la donna subordinata all’uomo). E il tarlo che prova a svuotare coraggio e intraprendenza ripetendo che per noi non è prevista nessuna vittoria: che, comunque, qualcosa, anche nei pressi del traguardo, ci riporterà indietro.





Questo è il mio intervento alla presentazione, qualche settimana fa, del libro di Angela Procaccini D:

Le sette donne, la bambina, le ragazze, le adulte, protagoniste della prima raccolta di racconti della poetessa Angela Procaccini sono state tutte, in qualche modo, ferite – qualcuna letteralmente a morte – da uomini che hanno risposto con indifferenza, viltà, superficialità al loro insopprimibile bisogno d’amore.

Un bisogno che aveva portato ciascuna di loro a fidarsi, ad affidare la propria vita a sguardi che prima le hanno illuse di vita, quasi fossero il sole che fa sbocciare i fiori a primavera e poi se ne sono allontanati, facendo entrare Vittoria, Liliana, Khadija e le altre nel freddo-buio di un’eclissi senza confini.

Se fosse solo così – pur nella bellezza formale, nello stile di matura pacatezza, nelle parole che hanno la forza nuova della semplicità e della verità: a me hanno richiamato la Grazia Livi de L’approdo invisibile – i racconti di Angela non avrebbero la caratteristica di unicità che invece hanno. Perché altre volte la narrativa contemporanea, ma anche forme più popolari di comunicazione quali fiction e telenovele hanno affrontato il tema della bambina stuprata in famiglia o della ragazza che abortisce per non dover rinunciare al futuro che aveva sognato.  

Ciò che fa la differenza nei racconti di Angela Procaccini è il fatto che queste donne vengono colte in un momento preciso, aurorale: quello in cui arriva a compimento e si disvela a loro stesse il lungo, doloroso, silenzioso processo attraverso cui hanno impedito a loro stesse di trasformare la loro ferita nella loro vita.
Perché queste donne hanno fatto sì che il male – la spada che le ha spezzate, il fucile che le ha crivellate, la bomba deflagrata nelle loro viscere – pur rimanendo per sempre inciso nella loro carne e nel loro sangue – non diventasse, per sempre, l’ultima parola della loro vita.

Le donne di Angela, infatti, hanno impedito al veleno che è stato loro iniettato di occupare ogni spazio del sé, ogni loro energia. Non sono diventate, come pure sarebbe stato comprensibile, esseri schiumanti rabbia e odio, indifferenza e disprezzo per ciò che è buono e bello; al contrario, hanno aperto il loro cuore e la loro intelligenza a nuova accoglienza e cura di ciò che, nella vita, è umano e, quindi, costruisce ancora vita e futuro.

La memoria – che mantiene sempre presente il momento che ha scisso in due la loro esistenza – non si è fossilizzata nello schianto del tradimento, dell’umiliazione, della ferita, ma è diventata l’invisibile filo del ritrovamento del nucleo più forte, intimo, immodificabile di se stesse. Attraversando e riattraversando la memoria del momento peggiore della loro vita, le donne di Angela Procaccini ritrovano tutte, insieme, il loro essere bambine e il loro essere madri. Ovvero, da una parte, la verginale freschezza della bambina capace di ricominciare, nonostante tutto, come se non tutto fosse perduto e, dall’altra, la capacità di cura, di attenzione, di abbraccio tenero e devoto della madre. 

In qualche modo, queste donne, sono figlie e madri di se stesse: si ri-partoriscono, rinascendo non in virtù di una forza, di un aiuto, di una mano che viene dall’esterno, di una scelta religiosa o di una decisione ideologica, ma ri-trovando in se stesse, nel più profondo del loro essere donne, le ragioni e la volontà del vivere.

Ci sono in Flavia, in Rosangela e nelle altre donne di D – nella loro dolcezza e nella loro forza, nel loro dolore e nella mutilazione del cuore che si fa servizio agli altri – frammenti della donna Angela Procaccini.
C’è, nelle protagoniste dei suoi racconti quella disciplina del cuore – fatta di tante “d”: d come donna, dolore, dolcezza, ma anche come decisione, decantazione dell’esperienza, declinazione dell’anima, d come dignità durevolezza e dedizione – che le ha consentito di riversare su centinaia e centinaia di giovani l’amore che non ha potuto esprimere alla sua Simonetta.

La ferita resta. Il dolore non si può banalizzare, non si può fingere che il tempo lo annulli e neppure lo diminuisca. Ma il dolore può essere masticato e rimasticato fino a trasformalo in sangue di vita. Non è necessario essere felici per costruire felicità per gli altri e, a forza di costruire l’altrui felicità, si può trovare la propria misura, il proprio equilibrio nel riconoscere che si è rimaste, nonostante le sberle e i pugni della vita, comunque in piedi e in cammino.



In crisi di astinenza da serie tv, mi hanno recentemente fatto un po’ di compagnia  i tre volumi di House of cards di Michael Dobbs

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