domenica 4 dicembre 2022

Le omelie vuote e La Parola Dio di Gabriella Caramore


Il Vangelo di oggi non è tra quelli che, immediatamente, facciano sentire la gioia di un’attesa. È duro, Giovanni Battista, che si veste di pelli di cammello, si nutre di cavallette miele selvatico, e, nell’annunciare “il regno è vicino” parla di “ira imminente” che come una scure taglierà alle radici tutti coloro che, non convertendosi davvero, non sono che una “razza di vipere”. Fa quasi da contrappeso, questo brano, duro, del Vangelo, a quello, irenico, di Isaia proposto come prima lettura: quella del “nuovo germoglio”, in cui ogni sapienza, bellezza, dolcezza è racchiusa, speranza di giustizia e di gioia per l’umanità.

A commentarle ci vorrebbe una persona – un uomo o una donna non cambia (a me il dibattito sulle donne prete non interessa, ma la voce delle donne sulla Bibbia sì, e molto) – capace di inoltrarsi nelle sfumature misteriose di Parole che evocano un Fatto – sta per nascere un Bambino che dirà di se stesso di essere Figlio di Dio – che segna, che si creda o meno nella sua divinità, la più profonda demarcazione nella Storia dell’umanità.

Mi è capitato, invece (non sono stata a messa nella solita chiesa che frequento) un prete in là con l’età, sicuramente uno che ci crede sinceramente, ma che sarebbe consigliabile non predicasse mai (uno sproloquio antigiudaico, anti-scienza, anti-ecumenismo: una sorta di mini Savonarola).

L’annuncio del Vangelo nelle omelie è un punto largamente dolente nella chiesa. Direi che, spesso, è allontanante/disturbante (non nel senso dell’inquietudine feconda ma della banalità, del sentimentalismo vuoto, della ripetitività).

In un mondo che, ormai da decenni, vive o può vivere fuori “dall’ipotesi Dio”, la presentazione della Parola acquisisce uno spazio più importante che in passato.

Ho letto recentemente “La parola Dio” di Gabriella Caramore, edito da Einaudi, che parte da questo interrogativo: «Si può ancora pronunciare la parola “Dio” dandole un significato che vada al di là di una inerte sopravvivenza? È davvero possibile liberarla dalle catene in cui le culture, le comunità religiose, i singoli individui l’hanno rinchiusa? La si potrà risollevare da terra, come ardentemente sperava Buber, o la si dovrà abbandonare a una deriva senza fine, in cui chiunque potrà usarla a proprio arbitrio, o deriderla, o magari cancellarla del tutto? È questa la posta in gioco. Capire se c’è un nucleo, un nervo che oggi si possa salvare dentro questa parola. Considerare se sia possibile farla ancora vibrare di quelle scintille che per secoli l’hanno tenuta in vita, ma senza aggirare il confronto con un’umanità radicalmente distante da quella che confidava pienamente in essa. Sapendo che viviamo dentro la realtà di uno sviluppo sociale e tecnologico che può benissimo fare a meno dell’ipotesi “Dio”, e sapendo, come ormai sappiamo, che la visione di un quieto cielo stellato occulta vibrazioni caotiche della materia, accelerazioni e precipitazioni, particelle rotanti, esplosioni, implosioni, fusioni, e sapendo che il male non cesserà di violentare la storia. Ma sapendo anche che ancora ci è dato di contemplare la bellezza delle notti profonde, e che il bene, qua e là, continua a resistere. Forse è possibile. Bisogna capire a quale prezzo. E se ne vale la pena.»

Mi sentirei di consigliarlo a chi, non avendo una fede a prova di bomba ma facendosi tante domande di senso, rischia, dopo troppe omelie vuote, brutte – e anche piene di assurdità, come quella che mi è capitata stamattina – di non rimettere piede in chiesa.

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