domenica 4 settembre 2016

Eccomi di Jonathan Safran Foer






Pietà, pietà di me. Più volte, leggendo Eccomi, l’ultimo e più complesso libro di Safran Foer, ho supplicato un po’ di pietà nei confronti di me stessa, volenterosa lettrice, sottoposta ad un racconto che, pur con molte variazioni di genere, è, costantemente, nelle sue quasi settecento pagine, un dialogo e/ o un monologo in cui ogni parola viene suddivisa non, con come si dice dei capelli, in quattro, ma in settanta volte quattro.

L’affresco della borghesia bianca, colta, newyorchese, di origine ebraica è imponente. Non manca nessuna nevrosi, paura, meschinità. C’è la famiglia con i suoi legami forti e la sua fragilità; la tecnologia capace di creare mondi virtuali equivalenti a quelli reali; c’è l’ironia e il coraggio; c’è la fede e il tradimento; c’è la pornografia e l’amore per i figli. C’è, addirittura, un terremoto in Israele da cui deriva una guerra che coinvolge tutto il Medioriente e, naturalmente, anche gli ebrei americani.

C’è troppo. E solo in alcune parti il libro si solleva da un’affaticante (per il lettore) accumulo descrittivo per farsi pagine intrise di letteratura e, come tali, capaci di riscattare come bello anche ciò che è senza qualità.

Ma Eccomi è un testo pieno di frasi, pensieri, riflessioni che viene voglia di sottolineare.

Per esempio, ciò che dice Deborah al figlio Jacob e alla nuora Julia (che poi divorzieranno) al momento del loro matrimonio, quando li invita ad essere fortemente uniti. Non, come si è soliti ripetere, in salute e malattia, ma “nella malattia e nella malattia. È questo che vi auguro. Non cercate e non aspettatevi miracoli. Non più. E’ che non ci sono rimedi per le ferite che feriscono di più. C’è solo la medicina di credere nel dolore dell’altro e di esserci”.

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