lunedì 2 novembre 2015

La Calabria e l'alluvione (e l'informazione)







I lettori di Repubblica, Corriere, Stampa e chi segue i tg nazionali sa a malapena – se proprio è attento ai trafiletti – che il maltempo ha colpito la Calabria, provocando qualche danno.

Chi ci vive, chi vi ha parenti, amici e conoscenti, chi segue fb, sa che una parte della Calabria è alluvionata, non ha più ferrovia e strada statale, vi sono crollati ponti e pezzi di casa, che quello che sta accadendo è una piccola apocalisse.

Che l’informazione, in Italia, sia uno strumento scordato che segue logiche che poco hanno a che vedere con i problemi reali del paese non è una novità.

E non è una novità che il nostro paese – non solo la Calabria – può andare in tilt per un qualsiasi fenomeno atmosferico che vada un po’ oltre la normalità, visto il diffuso disinteresse, l’incuria e peggio verso il nostro territorio.

La Calabria, di suo, (ma non siamo certi i soli, basta guardarsi in giro) ci mette una classe dirigente (fatte, naturalmente, le debite eccezioni) storicamente incapace, dedita, in larga misura, ai suoi interessi più che al bene comune (che cosa sarà mai? Mica si mangia), spesso collusa con il malaffare e una popolazione che – insieme a tantissime menti illuminate e moltissimi cuori generosi – comprende non pochi che non riescono a guardare oltre il ristretto presente di miopi interessi. 

Il risultato è che un territorio di bellezza eccezionale – un po’ abusato il testo di Repaci, ma davvero Dio l’ha creata in un giorno in cui voleva regalarsi il meglio di sé – resta, nel 2015, quello “sfasciume pendulo sul mare” di cui parlava Giustino Fortunato.

Ha scritto, con lucida rabbia, Gioacchino Criaco: «Abbiamo accettato ogni promessa, accolto ogni piano. Ci siamo fatti infinocchiare sulla via di un progresso che sapevamo bene non sarebbe stato il nostro. Le terre dovevamo chiedere, campi da arare e pascolare da padroni e non più da servi. E invece abbiamo accettato il pane del governo o dell’emigrazione. Ci abbiamo sputato sui nostri monti, sulle fiumare, sui boschi e gli arenili. E questi ogni anno ci restituiscono la cortesia. L’abbiamo abbandonata la nostra terra e ora a ogni scroscio di cielo ci diventa liquida sotto i piedi. Cosa volevamo, che gli alvei si pulissero da soli, i boschi si rigenerassero per partenogenesi, le frane si auto sanassero…? O vogliamo che vengano da Roma a tapparci i buchi? Dove siamo quando ci costruiscono le strade, le ferrovie? Quando alluvioni di denaro finiscono nelle tasche solite? Giriamo il capo e riveriamo. E non gridiamo ora che l’Allaro, l’Ammendolea, la Verde e il Bonamico si arrabbiano. Più strilliamo e più soldi manderanno, a pioggia, ma sempre a vantaggio di lor signori. A noi resteranno le alluvioni e le case di frasche e fango di Alvaro».

Il punto è: riusciremo a trovare il buonsenso necessario a occuparci della nostra terra, riconoscendo che dalla sua salute dipende il nostro benessere e, spesso, la nostra stessa vita?


1 commento:

  1. Apprezzo tantissimo, Maria, l'onestà delle tue parole, giuste e lucide, sulla Calabria che certamente ami. I napoletani, invece, non appena qualcuno fa loro notare il degrado che esplode nelle strade della città, si nascondono dietro il Vesuvio gridando all'antimeridionalismo. Ridicoli, questo sono.

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